Recensione pubblicata il 23 maggio2013 sul blog ViadelleBelleDonne
Quest’opera assolutamente unitaria, si sviluppa in XXIV composizioni,
cui si aggiunge una breve poesia iniziale in corsivo, dopo le citazioni di
versi di autori che parlano della madre, e un’altra finale sempre in corsivo
che fanno da cornice al poemetto e ne riassumono il significato.
La morte della madre è, a vedere bene, la nota dolente ( la più dolente
per una figlia ) che sprigiona nella figlia scrittrice versi sofisticati quanto
naturali, dove esprime la propria maturazione di pensiero e di affetto fino a
quel punto del suo vivere.
Come se si sprigionasse dalla morta madre ancora un travaso di energie alla
figlia. O come se la scrittura potesse creare la magia di prolungare il
colloquio con la madre. Ma il vero significato dell’opera sta nella riconsiderazione del Tempo (
spesso scritto con lettera maiuscola ) riguardo la morte della madre, il
rapporto madre-figlia, la loro storia dentro la più vasta Storia. La capacità della Spinelli di trascendere il
dolore per considerazioni più ampie, apre la poesia non solo a scenari di
dolore e morte.
Il tempo dunque ( Tempo) è il vero motore e il leitmotiv di tutta
l’opera.
Nella
prima poesia in corsivo, l’Autrice dice che “si nasconde al Tempo” e che nella
stanza vuota della madre “mi rintraccia la memoria”. Nell'ultima poesia sempre
in corsivo si parla del Tempo tiranno, egoista, che vola e sorvola su tutto
senza mai piegarsi a una commozione pur di mantenere la durata. Unico scopo
del tempo è dunque “durare”. Ma forse c’è qualcosa che lo piega, anche per poco:
il dolore e l’amore umano, gli unici due sentimenti che possono inchiodare il
tempo. Fermarlo per un poco. Porre l’uomo di fronte alla nudità di se stesso:
come dice filosoficamente Cioran nel suo libro da meditare: “La caduta e il
tempo”.
E’lì che nasce l’eterna domanda, attribuita poeticamente al Tempo, con
spostamento di soggetto, : “chiede chi siamo/ perchè poi infine ce ne andiamo”.
All’interno di questo assunto o di queste domande si snodano le altre poesie
con variazioni sui ricordi e sul dolore, sul paese natìo della madre, sulla
relazione con la madre stessa.
L’opera è tanto più rilevante perchè, come si diceva, la Spinelli, pur
invasa da un dolore senza uguali, riesce ad inserire la vicenda in una storia,
in un ambiente, nel tempo presente, e nel Tempo.
E per tutta la vitalità che vi percorre è in
grado di suscitare emozioni, che non è cosa da poco. Come
per altri poeti e non poeti, anche se tutti razionalmente pensiamo che è
naturale morire, quando la morte ci strappa le persone care, il sentimento si
ribella ad ogni accettazione e implora nei sogni, nei pensieri, nei desideri, e,
se è un poeta, nei versi: implora la vita.
Meglio del Foscolo nei “Sepolcri” nessuno ha considerato
questo aspetto che investe come una tempesta il nostro sentimento e gli fa
porre quella domanda eterna: “perchè infine ce ne andiamo”? Come se di fronte a
questo nulla o a questo tutto che ci attende nella morte, fossimo assolutamente
inermi e ingenui come un bambino.
Il libro di Marzia si addentra lentamente nel turbine
della morte, quasi voglia prima tessere una ragnatela di memoria e di vita: la
prima poesia che a mio avviso è tra le più belle “ I paesi del Metauro”, luogo
evidente di provenienza della sua famiglia, ha un fascino particolare,
pascoliano, dove nulla è definito ma bastano alcune pennellate di versi a
ricreare l’ambiente, naturalmente non quello geografico ma quello che Lei vede
oggi come poeta a distanza di tempo.
La “notte” è citata per ben tre
volte così come il termine “ombra” e “buio”. La notte dunque percorre i paesi
del Metauro che l’Autrice conosce ma nel buio, che diventerà da lì a poco
mortale, brilla la neve bianca e la valle aveva la sua luce. Sembra davvero un
quadro impressionista. Può darsi che anche nell’aldilà per Marzia ci sia un
pieno di luce. Lo si legge qua e là tra le righe.
Tra quella luce e il buio, tra la vita e la morte, quell'ambiente
costituito dai paesi percorsi dal Metauro, “fu sempre specchio, filo/
d’Arianna, fune ogni oltre dove”. Il legame ombelicale con il paese rispecchia
il legame e il nodo con la madre. C ’è bisogno della
fisicità di luoghi e oggetti perchè il nostro pensiero torni a far rivivere il passato, specie se
appartiene alla persona cara. Il corpo e i sensi segnano la strada.
Segue un’altra poesia, la II “Altro Natale” dove l’Autrice offre pane
spirituale (la poesia che va componendo) e cibo, dunque sostentamento ai suoi
famigliari, condito con “una colla di affetti”. Anche la madre avrà fatto così,
anzi altrove si accenna a cibi preparati e anche traslocati a casa della
figlia, “una fatica storica d’amore” in segno di aiuto e di affetto. Il giorno
dopo quel cibo era un amore sbriciolato, cioè consumato, tanto stretto il nastro
che lo tiene legato che bisogna tagliarlo. “Amore sbriciolato” offerto a tutti.
“Nodo stretto” che ogni figlia deve tagliare con dolore per una propria auto
identificazione. L’idea dunque che si riceve è che, nonostante la ferita, il
collante dell’affetto vinca, lo stesso che la madre nutriva per i figli, ora
viene travasato come da vaso a vaso dalla propria figlia nella nuova famiglia.
La vita dunque ha il sopravvento e il Tempo che uccide qui subisce uno scacco.
Ecco dunque addentrarci nel cuore del libro: la morte. E qui, come si
legge in quasi tutte le raccolte poetiche femminili dedicate a un buon rapporto
con la propria madre, anche se mai privo di qualche nube, vi sono, sia pure in
sordina, decifrati tutti i sentimenti che in quel tragico momento una figlia
può provare.
Vi è anche l’altra letteratura femminile che canta una madre terribile
ed assente, di cui la poesia più espressiva e radicale fa capo ad Anne Sexton:
la perduta eredità della figlia Anne, il mancato passaggio delle consegne da
donna a donna con sua madre Mary Gray (Anne giocherà sarcasticamente sul nome
“Maria”) era la causa principale del suo malessere esistenziale, della
negazione del suo corpo, e della incompiuta sua identità.
Ma qui si tratta di una buona relazione e la mancanza della madre
provoca un totale senso di orfanezza, come nuotare in un nulla e in una nebbia
che pare senza ritorno. Come subire il più forte sradicamento o perdere una
metà di se stessi. “Insostenibile il vuoto/affacciato su questo nulla”.
Il taglio ultimo del cordone ombelicale. La mancanza della possibilità
di colloquio. Lo scorrere del tempo che non ha più valore perchè “m’ha fermata/
alla tua ultima estate”.
La volontà infine di confondersi con la madre, per potersi identificare in
lei: “E’ il volto mio o il tuo? “
La rivisitazione degli ambienti
dove la madre ha vissuto, del paese dove è nata, il nominare e l’affidarsi agli
oggetti cari alla madre o alle foglie rosse nella sua stanza: sembra al momento
l’unica possibilità, l’unico desiderio della figlia che può dare sollievo.
Spuntano anche i sensi di colpa, che in questi casi non mancano mai: c’è
sempre qualcosa di deficitario, qualcosa che la figlia poteva fare in più, e
anche la madre avrebbe avuto altro da dire e “lasciarmi/ tutto compiuto e darmi
pace”.
E altrove dopo un quadretto idillico adatto a una Demetra e Kore,
parlando dei fiori, ecco affacciarsi il senso di colpa :”Di quelli almeno non
ho mancato”.
La naturalità e la leggerezza con cui vengono espresse queste verità in
versi ben ritmati tra classicità e modernità: rendono vitale il contenuto del
libro.
Poichè non farà meraviglia che la poesia femminile rivolta alla madre
morta esprime quasi esattamente le stesse caratteristiche, quasi un topos, o
una reazione del corpo e dell’anima uguale per tutte.
Ma sarà lo stile come in questo caso e la capacità di ovviare a un
diario a captare l’interesse del lettore.
Poi il seguito poetico si stempera in altri ricordi e in altri afflati
d’affetto, dove emergono, quasi altalenando con poesie più private, alcuni
componimenti più astratti e di alta perfezione.
Uno è certamente la
poesia XIV “ L’amo della memoria” che termina ancora con l’immagine
di un Tempo che semina “e porta tutto a
vendemmia anche le stelle”. Come se l’Autrice volesse ingaggiare una
competizione tra “memoria “ e “Tempo” dove si sa che quest’ultimo alla fine
vincerà su tutto, dove però la memoria è l’unica possibilità umana per fermare
il tempo.
Un’ altra, la più lunga del poemetto, che richiede buone capacità
costruttive, é “Negozio di pietre.”
Quasi un racconto in versi, molto
lunghi alcuni e prosaici, alternati con altri brevi che nell’insieme danno il ritmo.
Una storia al presente tra una figlia padrona che vende pietre – sotto la cui
durezza viene sigillato il pianto di Marzia- e che disdegna la madre, mentre
l’Autrice capita ( capita?) al negozio in un mattino d’anniversario, forse
l’anniversario della morte della madre. Vorrebbe dare un segnale a quella
figlia che ha ancora la madre viva, ma le pietre rimangono nella loro durezza e
il silenzio e la pena è solo sua.
Nasconde questa vicenda un altro senso di colpa cui ora è tardi per
riparare e si vorrebbe che altri sapessero? Lasciamo in sospeso che la poesia
può assumere vari significati.
Mano a mano che il corpo della madre si allontana, si affacciano nelle
poesie della fine il tema della voce, il suono di quella voce che è rimasta nei
timpani e che sarà l’ultima a morire, l’apparizione di sogni che le riportano
invano la madre, ma soprattutto c’è l’ avvento della scrittura, di quei versi
che già aveva detto di stare scrivendo nella poesia II, già citata “Altro
Natale”.
Tutte strategie di cui il nostro pensiero si serve per richiamare in
vita chi non c’è più.
Ma qui, come ho detto, c’è la poesia.
Il componimento XX “Siede il Novecento/su la tua schiena curva/di
superstite” è un esempio bellissimo di inserzione della propria storia
famigliare nella Storia, per giungere alla propria: ” La guerra, il matrimonio,
la mia nascita” . Pochi versi sono in grado di offrirci un quadro pieno di vita
e di storia di tutti. Qui l’utilizzo della Storia appare come un tempo dilatato in cui ognuno di noi, come un
granello minuscolo, attecchisce grazie all’amore ( o anche al caso o al
disamore ) dei genitori. E da qui la vicenda umana ha inizio, per la madre, per
Marzia , per ognuno di noi che nascendo siamo caduti nel tempo.
Ma, dice la nostra poetessa nella
poesia XIX “ Solo i poeti sanno la
nascita/ segnata dalle stelle...”
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