Le
ninfe son partite e solo resta/ il rimpianto del passo che innamora. Dura
nel vetro degli occhi il vento dei ricordi. E’ questa la cifra di Sabino Caronia,
critico e scrittore, che, in una sorta di voce dovuta a madama Nostalgia, dispiega
le sue ragioni d’amore. Lo dimostrano alcuni dei suoi versi più ispirati,
raccolti ne Il secondo dono, uscito
recentemente per i tipi di Edizioni Progetto Cultura, nella collana poetica le
gemme, curata da Cinzia Marulli. Caronia pare recuperare, attraverso una raffinata memoria poetica che spazia da
Pascoli a Cardarelli, a suggestioni
lorchiane, ismi lirici di autentica ricerca melica, che possono suonare
nell’ipetrofia visiva di certi azzardi sinestetici, forse come un cosciente ... sperimentalismo di
uno stupore, risolto sovente come rondismo dell’anima. Scintille di vita, egli
le affida alla forza dell’immagine, al
desiderio infinito di ridonare poeticamente i colori del cuore. In modo antico
stella, nel sonetto d’esordio, l’evocazione di un’infanzia mitica. Ritornare
da te fanciullo eterno/ che
siedi sopra il monte a Terracina./ e
come Orfeo, disceso nell’inferno/ rinascere in un’ansia di mattina. La natura
si fa specchio di un orizzonte del vissuto, liricamente restituito. Se il tuo stupendo volto adolescente/ in questo specchio magico è riflesso/ anche vive
nell’anima dolente / racchiuso nel profondo
di me stesso. Un procedere
siffatto può talora cadere nella retorica del facile sentimentale, abusato
miele che genera fiele poetico, ma il nostro, in larga misura, evita l’agguato,
cercando nel valore umano l’incompiutezza, il vago immaginare di una nebbia di
risa; nella terra desolata l’odore dell’amore è vero nel suo essere Passaggio in ombra. Non
avere paura / di lasciarci nel buio, / il tuo cuore è una fiamma/ che la
morte non spegne. Ginestra di notte la passione. Il mio amore è una luce/ che la notte non spegne.
Collezione di quaderni di poesia "Le gemme" - Edizioni Progetto Cultura - curati da Cinzia Marulli Ramadori
“Le gemme” vuole essere una collezione di quaderni di poesia dedicata a poeti contemporanei opportunamente selezionati, con il proposito di rappresentare una summa della loro poetica. L’intenzione è quella, infatti, di raccogliere le gemme di ogni autore per sintetizzarne il discorso poetico e, al tempo stesso, per facilitarne la diffusione attraverso un formato semplice ma elegante e di immediato impatto visivo.Nella convinzione che non è certo la quantità a determinare la qualità, Progetto Cultura ed io, abbiamo ritenuto qualificante dare vita a questa nuova iniziativa editoriale nella prospettiva di testimoniare momenti di elevata ispirazione poetica, tali da potersi legittimamente inserire nel panorama letterario contemporaneo per la loro unicità e significatività, sia dal punto di vista contenutistico che stilistico.“Le gemme”, pertanto, non vuole essere soltanto una collana di poesia, ma una teca luminosa dove i poeti possono mettere in evidenza i loro tesori.
mercoledì 26 giugno 2013
Chiara Mutti su Il secondo dono di Sabino Caronia
In Giove Anxur, quel miracolo di
marmo e tempo, esposto alla luce calda del sole che si arrossa al tramonto e
che sembra ancora dominare Terracina dalla cima del monte, riflesso
nell’infinita azzurrità del mare, in cui io stessa, in una bellissima gita di
qualche anno fa, ho annusato il respiro degli dei, ho trovato
quell’ininterrotta linea spirituale che ci unisce…quello specchio magico riflesso nell’anima
dolente, quel richiamo all’acqua materna, potenza generatrice. Il libro di
Sabino Caronia si apre e mi si apre così.
Ma è ad un altro tipo di fede a
cui, a mio modesto parere, “Il secondo dono” è in sommo grado ispirato:
l’amore. Inteso nella sua accezione più profonda.
Perché l’amore di Sabino è una
fede, non nel senso comunemente inteso di spiritualità, ma in quello suo
proprio di fiducia; nell’altro, nella vita dell’altro in quanto dono,
costruzione del se attraverso l’altro.
Nulla nella nostra piccola
esistenza è destinato a rimanere, eppure nulla si perde…
Lanterna nella notte, resta un pienissimo
sole – luce di luce vera – resta
il vivissimo fuoco di verdi occhi chiari.
Ecco l’amore è luce, è un verde di prati
smeraldo/ dentro una pioggia d’oro.
La luce di questo “caldo gentile”
si riaccende in immagini, in istanti di vita rubati all’oblio dal ricordo ed
anche, o forse maggiormente, lì dove il paesaggio si vena di malinconia o di
rimpianto, lì dove il paradiso dell’amore è un morto paradiso, l’amore non viene mai rinnegato – non sperare che possa/ mai morire il mio
amore/ Il mio amore è una luce/ che la notte non spegne – L’amore di Sabino
non pretende, non chiedo…che una stanza
per me dentro al tuo cuore.
In questa richiesta muta che urla, verso cui si protende e
da cui fugge allo stesso tempo – e tengo
chiusa la porta di casa/ di fronte all’invadenza delle stelle – Sabino
sancisce la propria appartenenza alla vita, alla fragilità dell’essere umano.
Questa vita che corre e che, come saggiamente ci ricorda nella bellissima
strofa posta a incipit dell’intera raccolta, dura il tempo di una sigaretta, ecco
lì riconosco l’essenza, il valore di quel “qualcosa di più” che esula da altre
vane speranze. Trovo il più intimo, il conclusivo messaggio della poesia di
Sabino.
…
E così me ne vado
in giro per le strade
sotto più chiare
stelle,
dentro il buio più
nero,
ubriaco di sogni,
di speranze e di
cielo.
Chiara Mutti
Plinio Perilli su Il secondo dono di Sabino Caronia
Articolo pubblicato nella rivista Voce Romana - rubrica POETICANDO - Diario di un
laboratorio poetico
Critico
e anche narratore di vaglia, Sabino Caronia ha da sempre con la poesia un
rapporto privilegiato, insieme di dedizione storica e vocazione intimistica. E
vorrei almeno ricordare i suoi saggi raccolti in L’usignolo di Orfeo
(1990) e Il gelsomino d’Arabia (2001), oltreché i brevi ma
calibratissimi romanzi L’ultima estate di Moro (2008) e Morte di un
cittadino americano (2009), su Jim Morrison, il celebre cantante e leader
dei “Doors”, spentosi a Parigi a 27 anni, nel luglio 1971…
Conosce
insomma a perfezione tutto o quasi il nostro ’900, di cui ama in particolare la
cifra effusa e stoica di Cardarelli, ma anche il lirismo asciutto, all’inizio
rorido e via via sempre più tagliente di un Caproni… Sul filo della nostra
ormai annosa amicizia, e nella condivisione di non poche collaborazioni a
riviste romane di buon esito (una su tutte: il trimestrale “La Scrittura ”, da noi
animato negli anni ’90 assieme ad Antonio Stango e Idolina Landolfi, e altri
amici come Emerico e Noemi Giachery, Fabio Pierangeli, Ernestina Pellegrini,
Neria De Giovanni, Eugenio Nardelli, etc.).
Spesso Sabino viene a trovarci, durante i nostri laboratori poetici del
mercoledì, e s’intrattiene ad ascoltare la poesia degli altri, dei postmoderni
“lirici nuovi”… Talvolta ci legge anche le sue, che solo per un pudore
recondito si ostina a chiamare esercizi… Ora questo sua prima plaquette
poetica, Il secondo dono, uscita presso la collana “Le gemme”, che
Cinzia Marulli dirige a Roma per le edizioni di Progetto Cultura (àuspice Mauro
Limiti), salda insieme un debito (che Sabino ha verso il ’900 che ama), e un
credito che la musa poetica gira e offre a lui stesso…
Ci
sono passi e passaggi molto belli, degni degli orizzonti che Sabino ama, onora
e pratica da anni. Il versante di un’eterna, ininterrotta elegia fra sentimento
e realtà, briosa fabula della vita e sua aspra, severa deriva (cioè
macerazione) razionale. Mario Luzi parlerebbe insieme di Vicissitudine e
forma… Ma ecco ad esempio otto riccioli lirici in due quartine, davvero
capelli d’angelo, boccoli celestiali perché amorosi di una moderna nuance
petrarchesca: “Per gemma del tuo anello / prendi questo mio cuore, /
portalo sul tuo dito, / scaldalo col tuo sangue”…
Da quando Saba ci ha parlato e si è battuto
ancora e sempre in favore della rima fiore-amore, la più antica difficile di
tutte, sappiamo che non c’è etica in poesia che possa elidere o rinunciare
all’afflato medesimo del sentimento forgiato, ribaltato in sentire. Caronia ha
questo coraggio, e questo dono: dono donato, che si riceve e si rende
nello stesso modo… La stanza segreta del ’900 è e resta dunque in ogni poeta
tutta dentro di sé, come perenneffimero osservatorio, pensatoio
minimo/supremo d’ogni Realtà: “Altra cosa non chiedo dalla vita / che una
stanza per me dentro al tuo cuore”…
Cardarelli,
sì, il suo fragile, coerente cinismo d’innamorato d’Amore e del suo cantarlo,
cantarsi… Ma anche, e appunto, la geometria emotiva, la dialettica
trigonometrico/epocale di un verseggiare che adusa melodie e radiosità,
prestiti e canoni, aloni ed emblemi quale unica risorsa che valga, che conti,
nel dittare da dentro…
Due
suole a terra misurare alterne / l’indugio breve d’una sigaretta. / Veramente
la vita è fiamma vinta.
Anche
il Terzo Millennio, vuol dirci Sabino Caronia ha bisogno degli aurei,
peritissimi e sinuosi orditi di un sonetto (splendidi “A Giove Anxur” e
“Innamorati”); o di quei distici interni che accelerano e fissano in eterno le
anse e morbide, lentissime onde d’un rigoroso, infibrato fluire poematico… “Il
mio amore è una luce / che la notte non spegne”; “Cosa m’importa della
primavera / senza il verde segreto dei tuoi occhi”…
Salutare
poi i poeti amati e riamare in quella poesia anche la propria, non certo ad
imitazione – attenzione – ma semmai a provvido specchio fraterno: “Deserta
Andalusia che il cuore pungi / come pensiero di donna lontana…” (García Lorca).
Ancora Cardarelli, ammaliato e pudico all’unisono d’adolescente beltà: “Che
dirò mai fanciulla / nerissima di te? / Che dirò del tuo corpo / difficoltoso e
vago?”… Perfino una giovane Maria Luisa Spaziani restituita all’entusiasmo dei
suoi primi anni ’50: “La luna di Parigi / non è più la mia luna. / Nel suo
letto di perla / più non cullo i miei sogni”… Sempre e comunque l’optimus
Caproni: “Anima mia, stasera / va’ a Parigi, ti prego, / e con la tua candela,
/ timida, di nottetempo / fa’ un giro”…
“Un vero e proprio corto circuito…” – ha
ragione Dante Maffia nell’affettuosa introduzione – “una sorta di simbiosi che
lo ha spinto ad impossessarsi di movenze e di cadenze di questi maestri, fino a
suggerirgli, a volte, incipit e chiuse delle poesie che ha scritto. Un omaggio
e una condanna, a un tempo, ma che Caronia ha saputo rendere personali, tanto è
vero che in questo libro non troviamo soltanto i modelli citati, ma assonanze
dei grandi classici”…
Le
sue vere gemme più pure sono qui gli istanti, cupi ma radiosi d’argento, la
catulliana “breve luce” o nuga fissata per denso monito, rimemorata, intonata
ad afflato: “Se tu sparisci poi non c’è più nulla. / Nulla, più nulla. Eclissi
a mezzanotte. / Era già buio, tanto buio, prima”.
Da
questa fertile e lancinante “Eclissi”, sempre risorge la poesia, ci si
riaccende il cuore tra fiamma vinta e cenere, fenice divinata, ansia in ogni
nuovo bacio – o dono – trasmutata.
Plinio Perilli
Luigi Celi su Il secondo dono di Sabino Caronia
Il secondo dono di Sabino Caronia è opera intensa, di passione, desiderio
d’amare e d’essere amati, di lacerazioni e aspettative in parte deluse proprio
perché investite di assolutezza; poesia in apparenza semplice, ma a ben
guardare qualificata da innesti e operazioni sul linguaggio complessi,
chiaroscurali, per cui la raccolta risulta infine borgesianamente labirintica, un
puzzle molto sofisticato.
Caronia è scrittore e poeta che
utilizza procedure letterarie che possono essere ricondotte ai meccanismi
psicologici (psicoanalitici) primari dell’identificazione e della proiezione,
nutrito di cultura greco-latina e della grande tradizione della poesia
italiana, tuttavia ha fatto propria più di una delle lezioni del modernismo americano
ed europeo. Il modernismo - che va da Pound ad Eliot, da Joyce a Hemingway a Henry
Roth a Windham Lewis a Virginia Woolf, con ricadute su Kafka, Céline, Pessoa, Pirandello,
Gadda, per citare alcuni dei grandi - ha tra le sue caratteristiche l’attenzione
al mito, o quella di far entrare in scena personaggi, maschere, per “oggettivare”,
oppure fagocitare versi e frasi non sempre dichiarati, metabolizzando pensieri
d’altri autori. Eliot teorizzava questa caratteristica del modernismo: “io non
cito, rubo!”. Muovendosi su questa linea in effetti Caronia è camaleontico. Il
suo classicismo e il suo soggettivismo – il suo “io” a volte pare dilatarsi a
dismisura - sono in tensione dialettica col modernismo. Quindi abbiamo diverse
facce dell’Autore. Una scrittura prismatica, in superficie limpida, scorrevole,
che utilizza molte strutture e metri propri della poesia classica - il sonetto,
l’endecasillabo, il settenario, la rima, l’allitterazione, l’anafora - nella
sostanza, mostra impeti magmatici, telluriche implosioni. Caronia si muove come
un modernista quando si annette testi di celebri autori e sembra non aver tempo
di fermarsi per precisare le sue fonti; forse perché il virgolettare sortirebbe
l’effetto di togliere intensità ad un dettato lirico che è insieme
autobiografico ed eterobiografico? Caronia è un ventriloquo: parla per bocca di
altri; altri - Jim Morrison, Aldo Moro - divenuti personaggi dei suoi testi,
parlano attraverso la sua. La poesia di p. 22, La passeggiata, è in buona parte un calco di Preghiera di Caproni; mentre a p. 24, leggiamo: “che dirò del tuo
corpo/ difficoltoso e vago?”, versi di Cardarelli, questi, riportati senza
virgolette; ci sono anche versi di Catullo, Kavafis, Lorca...
Anche i temi centrali delle sue opere
in prosa, di critica o dei romanzi - penso a L’Usignolo di Orfeo, a Il Gelsomino
di Arabia, ma anche a Morte di un
cittadino americano, Jim Morrison a Parigi - confluiscono ne Il secondo dono che ci appare quale distillato
di questo suo variegato impegno letterario. Tutte le sue opere sono
rappresentazioni in maschera di dinamiche intrapsichiche (individuali), transpsichiche
(archetipiche) e collettive. I suoi tempi non sono diacronici ma sincronici e tutti
gli autori, antichi e moderni, sono contemporanei. Caronia coltiva come Tomasi
di Lampedusa “il culto dell’implicito”, per cui conta di più il non detto che
il detto e possiamo ipotizzare che le Sirene, oggetto di una sua insistita
evocazione, cantino anche quando tacciono …, il loro silenzio è allora ancora
più sacro e originario. Sarebbe sbagliato vedere in quest’opera soltanto una
versificazione del sentimento amoroso incentrato sull’oggi, Sabino fa suo il
pianto di Orfeo per la perdita di Euridice, con Ovidio, canta come l’usignolo
virgiliano a cui sono stati strappati i suoi piccoli dal nido, mentre la nostalgia
della vita intrauterina del primo componimento ci riporta all’Innocente di D’Annunzio, per cui - come
scrisse Italo Alighiero Chiusano – il D’Annunzio di Sabino, piuttosto che
essere un vitalista del puro presente, è “ un ‘gambero’, proiettato indietro
verso la madre”. Ancora possiamo dire che Caronia simile a un Proteo si fa scrittore,
critico letterario, poeta, quindi personaggio, per poi invertire la rotta,
orientarsi verso la natura primigenia dell’uomo, ritornare al pascoliano “fanciullino”,
“creatura”, come direbbe Sciascia, alla nudità del puer. Egli dichiara alle donne della sua vita o del suo immaginario
i propri sentimenti, ma non accetterebbe mai di vivere materialmente l’eros
senza un’impegnativa radicale operazione di autosublimazione poietica del
desiderio. La sua scrittura è tutta un ossimoro,
è quella di un classicista romanticamente esacerbato, che vive un eros fantasmatico
fino all’autocombustione. “Ladro di fuoco”, come il Prometeo di Rimbaud, “veggente
dei sensi”, sprofonda nei suoi abissi inferi, rinuncia agli eliotiani “asciutti
salvataggi” (the dry salvages), a
quelli di una ragione un tempo apollinea - oggi annerita, affumicata dalla
tecnica - per rinascere come un ricomposto Dioniso Zagreus, un Osiride dopo lo
smembramento. Nel romanzo L’ultima estate
(Moro, uomo solo) – romanzo, dopo la scomparsa di Andreotti, quanto mai
attuale - Sabino e Moro si confondono, come si confondono lo “Iuppiter Anxurus”
- “Iuppiter Anxurus arvis presidet” di Virgilio - e Gesù, il puer di Terracina e il bambinello di
Betlemme, come scrive lo stesso Sabino. Tuttavia Moro e Sabino sono anche il senex, impersonano il puer e il senex, due archetipi che Jung e Hillman hanno considerato due
possibilità psichiche dell’integrazione e del processo d’individuazione. Come stiano insieme, Gesù, Giove, Moro e
Sabino non importa saperlo con la mente, solo bisogna leggere e immedesimarsi
nel flusso delle fabulae; occorre
percepire sinestesicamente il molteplice che confluisce in questo “gliuommero”,
che meriterebbe un Ciccio Ingravallo della critica letteraria per poterlo del
tutto dipanare. Il secondo dono
comporta - per dirla con Serra e con Carducci - “Oltre il dono di fare la
divina poesia, quella di saperla ammirare fino alle lacrime”. Questo il senso del
titolo: una poetica e una poesia che sono una sola cosa nell’opporsi non solo
ad una critica astrattamente filosofica, come quella crociana, ma anche nel
proporre un poiein di gusto e immedesimazione.
Il primo componimento della plaquette
è un quasi sonetto, perché le rime delle due quartine non si riproducono, ma è
testo comunque in endecasillabi rimati; il secondo componimento è più lontano
dal sonetto canonico. Sabino adotta in avvio la forma chiusa, quasi a rivendicare
dinanzi ai suoi critici la capacità di scrivere in versi da esperto. C’è una
questione di tecnica e stile, che non è mero “rappel à l’ordre”, estrinseco richiamo
al “canone occidentale”, per dirla con Bloom. C’è con un’assunzione di vincoli
strutturali e ritmici l’intento di porre alcuni argini formali della
frantumazione rischiati dal desiderante, il quale nella sua irrefrenabile
deriva esprime la pulsione opposta di reintegrazione dell’io in un moto panico,
verso ciò che Freud chiamava il “sentimento oceanico”, desiderio di immergersi
nella Totalità come nelle acque intrauterine, o nello schlegeliano “Streben nach
dem Unbedigten” ( “la tensione verso l’Assoluto”), il divino immanente/trascendente.
D’altra parte “desiderio” viene da de-sideribus;
ci si misura con le stelle, sia che l’oggetto del nostos venga identificato nella Bellezza in sé, sia che lo si intenda
come “Sommo Bene”. Per Platone kalos
e agathos sono la stessa cosa se
pensati fino in fondo, cioè come sostanze (ousiae)
ideali e come tali, essendo immateriali, penetrano gli enti terreni fino al
sensibile (metessi) e li orientano al trascendimento. La poesia di Caronia esprime
l’impossibilità di conseguire una relazione di fusione totalizzante con
l’oggetto d’amore - questa o quella donna sono maschere dell’eterno femminino -
ed è evidente che non è possibile un regressus
ad uterum o un mero ritorno all’Eden. Anche la “parola innamorata”, fatta
propria da Sabino - non intendiamo quella della famosa antologia
La parola
innamorata, a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro,
Feltrinelli 1978 - è proprio il modello di poesia che si è imposto con
Petrarca. Petrarca aveva teorizzato il dissidio tra l’amore terreno e l’amore
divino; così anche la parola poetica nell’umano, che contribuisce nella paideia all’autoperfezionamento umano,
persegue il télos connaturato alla morphé, al progetto strutturale insito
nell’“essere dell’ente”. Il conseguimento dell’entelecheia aristotelico/tomista
appariva però, già in Petrarca, sempre minacciato di fallimento, per la
sproporzione tra immanenza e trascendenza. Anche Don Giovanni, simbolo per
antonomasia dell’esteta, nel moderno, è un idolatra che non sa di esserlo: vive
nei suoi adulteri l’adulterio ontologico di cui parlano i profeti biblici, perché
ama di più la bellezza della creatura che la Bellezza del Creatore. Tema
questo che conduce al “dissidio” di cui Petrarca si era appropriato attraverso
il suo dialogo incessante con Agostino, nel Secretum.
La tradizione, quindi, ha già nel Rerum
vulgarium fragmenta del Canzoniere
petrarchesco, un nobile antecedente proprio nella consapevolezza dei rischi
connessi a tale “dissidio”, che può produrre la frantumazione interiore del
soggetto e quindi del linguaggio tout
court. L’adesione senza pentimento al petrarchismo la ritrovo in questa
raccolta di Caronia, in particolare nell’adozione del modulo che corrisponde
all’ideale d’armonia formale che prima era greco-latino, poi cristiano, quindi
umanistico, che nel moderno, laicamente mutato di segno, è stato via depotenziato,
perché desacralizzato. Tutta la poesia moderna, non solo d’amore, a partire dai
Fragmenta petrarcheschi, tende a
porsi, consapevolmente o inconsapevolmente, da una parte, con il classicismo, come
argine all’angoscia di frantumazione, che è anche l’angoscia di essere non
amati, perché il desiderio è assoluto e il dissidio è ontologico, non
psicologico, dall’altra adottando già la struttura del frammento il linguaggio evidenzia
la dissoluzione dell’io, la difficoltà di esprimere l’amore e il dolore, propri
del moderno. Caronia sembra aggrapparsi, almeno in questa raccolta,
all’armonia, ai metri, alla misura dei versi, per arginare il suo desiderio tendenzialmente
rovinoso, e non gli importano più i prestiti, gli innesti di testi che gli
servono per costruire la diga. L’armonia è perseguita in letteratura, anche in
poesia, come armatura, direbbe la psicoanalisi. Perciò quell’irenico ritornare
alle origini, alle “chiare fresche dolci acque”, acque intrauterine in questo
caso, al rapporto melos-senso dei greci, all’infanzia, potrebbe avere senso
drammatico di rimozione. … Ma si guarda indietro anche per poter guardare
avanti, per rinascere: “Ritornare da te fanciullo eterno/ che siedi sopra il
monte a Terracina/ e come Orfeo disceso nell’inferno/ rinascere in un’ansia di
mattina”. Qui s’innesta la dialettica tra il motivo orfico del descesus ad inferos – anche nei richiami
alla IV egloga delle Georgiche virgiliane - e la levitas, come ascesa al sublime di un’arte, di una poesia, in cui
il motivo orfico è recuperato per la palingenesi, la rigenerazione di tutte le
cose. Ciò ci riporta alla penultima poesia, Senza
più peso, del secondo libro di Ungaretti, in Se questo è un uomo - “Per un Iddio che rida come un bimbo, /Tanti
gridi di passeri, / Tante danze nei rami/…”- . Emerico Giachery osserva
giustamente che qui “Un bimbo riattiva la condizione edenica”.
In Caronia, il bimbo - direi - è un
senex ridiventato bambino, quindi un puer aeternus. Occorre evangelicamente
ritornare “come bambini”, farsi “puri come le colombe e astuti come i serpenti”
per entrare oltre che nel regno di Dio in quello di una poesia che vuol essere
(in uno) antica e moderna, operare la conjunctio
oppositorum.
Laura Canciani su Il secondo dono di Sabino Caronia
Sempre ho avvertito in Sabino
Caronia, filosofo, saggista, critico, commentatore raffinatissimo, anzitutto il
poeta. Ora, all'improvviso, con timidezza combattuta, affiora una sua raccolta
di poesie dal titolo enigmante "Il secondo dono" (quale dono tra gli
infiniti elargitigli dall'Essere supremo?). Penso che i suoi versi siano nati,
a poco a poco negli anni, quale tenuta rispetto a tutto ciò che, al
fondamento, risulta momentaneo e provvisorio. Mi sembra di cogliere inoltre che
la poesia di Caronia poggi costantemente più sull'autonomia del significante,
sull'incisione, sulla concentrazione dolente di fiotti della vita psichica e
avvolgente, ma passeggera: «Due suole a terra misurare alterne / L'indugio
breve d'una sigaretta. / Veramente la vita è fiamma vinta.»
Il suo «privato» giornaliero
diviene il «grandioso», l'evento significativo che ritroviamo in Saba, in
Caproni, Sereni, Montale, Luzi... Sabino Caronia vuole continuare a scoprire il
senso, l'idea, il solido della materia da ricondurre alla solidità, al vecchio,
all'antico, all'eterno, per giungere, pur nell'inconscio, al classico.
Significativa risulta la bellissima poesia «Fuente vaqueros»:
Deserta Andalusia che il cuore
pungi
Come pensiero di donna lontana,
Io lo so che non più di cavalieri
Erranti è tempo e di perduti
amori,
Perciò fuggo le lunghe strade
rosse
Che vanno dritte verso nessun
dove
E tengo chiusa la porta di casa
Di fronte all'invadenza delle
stelle.
È necessario tornare ai classici?
Tendere ad un linguaggio che diventi una «spinta in alto»? I presagi (e i
messaggi) scaturiscono dalla discrezione, dai silenzi lunghi, da profondissima
tristezza controllata; la melancolia che trascorre in questi versi deriva
dalla certezza della tradizione che si è allontanata, che il poeta di Terracina
vuole richiamare. Non è possibile infine tacere la presenza aurea di
Federico Garcia Lorca come riconosciuto da Dante Maffìa.
La memoria ritorna «come lampada
che non elimina la notte, il buio, ma permette di attraversarli».
Laura Canciani
Marzia Spinelli su Il secondo dono di Sabino Caronia
Al telefono
Al
telefono, durante una delle tante conversazioni in cui ci avventuriamo, lui da
casa ed io in ufficio, Sabino mi racconta un sacco di cose, alternando
letteratura, aneddoti, amicizie e quotidianità; io soprattutto ascolto e la
conversazione è piacevole, un po’ surreale,
ma sentita. Tra una citazione e un fatto quotidiano o familiare a un
certo punto con guizzo improvviso Sabino dice qualcosa di spiazzante, come ad
esempio :“ma sai, la poesia non è la realtà ….”. Resto un po’ perplessa senza aggiungere
altro. Più tardi, riflettendo e rileggendo il suo libro, mi verrebbe da aggiungere:
“perché
la poesia è un’altra cosa”. Cosa poi sia è impresa ardua spiegarlo …
Ma
penso che il libro di Sabino voglia dirci in parte, se non del tutto, proprio
questo.
Certo,
nel Secondo dono c’è il suo viaggio
dell’anima, personale e intimo, ci sono nostalgie, emozioni, c’è l’infanzia e
l’adolescente che rende omaggio a Giove Anxur sull’altura di Terracina: forse
il suo specchio di Narciso o l’utero materno ove tornare e annegare e trovare
unicità e unitarietà dell’essere. Ci sono inoltre molte figure che aleggiano,
femminili e non, ci sono perdite, dolori: l’esigenza, la necessità di tirar
fuori l’anima nascosta, segreta e segrete cose … ma, come Sabino stesso dice, tutto concorre
ad essere pretesto per dire qualcos’altro; quel dire della poesia che non è
quel che sembra. Dirne anche l’ ambiguità: chi sono questi tanti TU cui si
rivolge?e quegli occhi verdi onnipresenti a chi appartengono? La poesia cui
Sabino si rivolge prende varie sembianze, concrete perché la poesia lo è, e al
tempo stesso ineffabili, ma parte di un tutto nella loro molteplicità: tanti in
uno, come tante stanze del mondo da guardare e stanze della poesia nel
riattraversamento della tradizione(praticamente tutta), tanto amata e studiata,
conosciuta in ogni suo segreto e in ogni sua luce/ombra. C’è dunque la Poesia e il parlare di e
con la Poesia , che è sogno, Bella addormentata da
risvegliare, o lasciarla là, nella sua fiaba, per non contaminarla, non
sporcarla, rileggerla sì in tanti modi e
solo così farla propria.
Il
poeta, l’uomo, se ne va, “inquieto, senza
meta … ubriaco di sogni, di speranze, di cielo, come un santo … come umile
francescano, in una stanza dentro al tuo
cuore, povera, niente lusso, ma pulita..”come la parola che ci dona.
Vorrei
aggiungere quel che non non ho detto
ieri sera, perché mi è sfuggito: queste conversazioni sono una sorta di “interferenza”, in senso creativo,
oserei direi montaliana, (tutti ricordano la famosa poesia con la quale l’Autore
voleva unicamente rendere omaggio alla Poesia); sono una forma di energia che
attraversa il filo del telefono - (non
la mail o un sms ! ), un modo quasi desueto ormai, ma assolutamente
creativo di interagire con la realtà, che è faticosa, contorta e stremante, cui
aggiungere un guizzo, una ribellione, un piccolo incendio alla mediocrità e
alle contraddizioni tra le quali ci tocca vivere. In fondo forse è questo il fine del poeta e di
questo sono molto grata a Sabino e alla sua Poesia.
Con
affetto e stima
Marzia
Spinelli
19
febbraio 2013
Tommaso Debenedetti su Il secondo dono di Sabino Caronia
Se si dovesse racchiudere in una
definizione il lavoro poetico di Sabino Caronia, si dovrebbe parlare di poesia
della luce. Luce in tutte le sue tonalità, da quelle abbaglianti, così forti da
sconfinare nell'opposto, a quelle più limpide, distese, alternate di penombre.
Luce di paesaggi, di stagioni- l'estate in primis, il tempo fermo dei densi
climi di cardarelliana memoria- ma anche luce sconfinata ed extratemporale
dell'Anima che ritrova la sua fonte, il mistico abbraccio di una Divinità che
è, per eccellenza, materna e donatrice. Scorrendo le pagine di questa
bellissima raccolta, dal titolo non casuale "Un secondo dono", il
lettore può scorgere, condensati e ricreati in una musica tenue e struggente,
dall'inclinazione appena malinconica, tutti gli aspetti e i caratteri del
Caronia critico (quello dell'"Usignolo di Orfeo" e del
"Gelsomino d'Arabia", e di tanti memorabili scritti) e del Caronia
narratore (quello de "L'ultima Estate" ma pure quello, splendidamente
evocativo del racconto la Cupa
e l'acqua chiara o dell'esemplare racconto sulle luci della festa ebraica di
Khannukà viste attraverso gli occhi di Kafka). Si direbbe che il Caronia poeta
e il Caronia saggista e scrittore si corrispondano in modo perfetto, fornendo
l'uno all'altro climi, motivi, spunti, suggestioni. Per accorgersi di questa
straordinaria osmosi, basti un'occhiata alle liriche di "Un secondo
dono". Il "Giove Anxur" protagonista di tante pagine narrative
di Caronia, viene evocato, nell'omonima poesia, come "paradiso perduto ove
tornare vorrei per sempre a rivedere il Sole". Luce naturale che diviene
luce metafisica, evocazione di un principio divino dall'aspetto interamente
materno: "acqua materna ove è dolce annegare, cancellare il molteplice
nell'uno". Nei versi di "In spirito e corpo" un paesaggio
marino, quello di Gela, offre a Caronia l'occasione per dire:"rapirei la
luce della tua gioia al sole per vincere anche il buio della notte più
nera". Luce e buio, dunque. E il buio, nella notte dell'Andalusia cantata
in "Fuente Vaqueros", si inonda di luci: "tengo chiusa la porta
di fronte all'invadenza delle stelle". E' forse superfluo ricordare quanta
importanza il rapporto luce-buio abbia nella critica di Caronia, per esempio
nelòle pagine dedicate a Italo Alighiero Chiusano, a Cardarelli, a Sciascia, a
Pomilio. Anche i gesti, le parole, gli affetti, vissuti nel ricordo, si fondono
in visioni di luce: come avviene in "Il sole del mattino" e in
"Non ho dimenticato": "Non ho dimenticato quel pienissimo sole,
quel mare di smeraldo, quel morto paradiso". E ancora, struggente,
soffocato grido che diviene canto: "Chi mi consola ormai dei soli
spenti?". In "Ogni terzo pensiero" il rapporto luce-buio tocca
il suo apice: "Lanterna nella notte/la tua piccola mano/mi fa luce nel
buio/illumina il sentiero./Luce di luce vera/tu mi porti per mano". luce
mistica nel buio, luce affettiva che accompagna, luce nel tempo e oltre il
tempo, luce e buio dell'universo prenatale su cui, da sempre, converge
l'originalissima indagine critica di Caronia. In questi versi, oltre a
trasformare in poesia la sua intuizione di saggista e anche di scrittore
(ricordiamo il Moro, narrato da Caronia,
da statista divenuto semplice uomo dell'ultima lettera dalla prigione :
"Se ci fosse Luce sarebbe bellissimo"), l'autore ci conduce nel
centro della sua percezione della Luce extratemporale della Fede, una Fede che,
come fremito sotteso e discreto, impregna tutte le pagine della raccolta. Fede-
ripetiamo- che è anzitutto percezione di una Luce nel buio, di una Mano che
accompagna, di un universo fermo e sereno da cui si è partiti, nell'alba
prenatale della vita, e a cui si torna. (E qui sarebbe doveroso citare un altro
poeta della luce, e degli infiniti chiaroscuri dell'esistenza, per lunghi anni
amico di Caronia, Elio Fiore). Proprio attraverso il senso della luce, Caronia
evoca anche l'opposto: l'oscurità delle notti dell'anima, le delusioni , gli
smarrimenti. Come la luce negata del cielo di Parigi: "La luna di Parigi
non è più la mia Luna", o come il brivido che accompagna il ritmo della
pesia conclusiva, quasi in misteriosa corrispondenza con certi toni del
romanzo-saggio di Caronia su Jim Morrison: "E così me ne vado in giro per le strade sotto più chiare stelle
dentro il buio più nero ubriaco di sogni, di speranze e di cielo". E'
difficile, davvero difficile, l'osmosi fra l'indagine critica e i ritmi della
poesia. L'autore di "Un secondo dono" non solo è riuscito a darci un
raro esempio di tale fusione, ma ha fatto molto di più. Ha intonato un canto
delicato, limpido e tenerissimo, dell'esistenza e del suo continuo, incessante,
mistico dialogo con la Luce.
Tommaso Debenedetti
Luciana Vasile su Il secondo dono di Sabino Caronia
Potrebbe creare una certa
difficoltà intervenire dopo le dottissime introduzioni alla silloge di Sabino
Caronia: siamo di fronte al filosofo e poeta Luigi Celi e al critico saggista
poeta Giorgio Linguaglossa che entrano con competenza nei versi e fra i versi,
sono i classici addetti ai lavori. Con Luigi Celi sempre mi trovo d’accordo e
anche questa volta non posso che complimentarmi con lui per l’attenta e accuratissima disamina del testo.
A Giorgio Linguaglossa, con il rischio - temo - di essere picchiata, dico che
la recensione di “Il secondo dono” nel recente n.54 della rivista “I Fiori del
Male”, e ovviamente insieme alle sue parole di oggi che fanno ad essa
riferimento, per me è la cosa più bella che di lui abbia letto ed ascoltato. Vi
chiederete perché questa istintiva improvvisa odierna passione, quando è
risaputo che Giorgio Linguaglossa produce cose dottissime. Perché lui qui ha
scritto con il cuore, almeno per un 80%, lasciando solo il resto alla ragione.
L’intelletto può regalare cose interessantissime, non discuto, ma a volte la
ricerca di un linguaggio complesso e complicato che scivola nel criptico,
potrebbe allontanare, come in questo caso, da una poesia invece diretta, che
trafigge facendosi forte del “conosciuto”.
Quindi, da lettrice, sono grata a Linguaglossa per come sia riuscito ad
illuminare in modo semplice e vero i versi di Sabino Caronia, appunto
attingendo dal cuore. E’ ciò che merita questa raccolta, fatta di alta preziosa
semplicità, mai ovvia e banale.E’ stata, qui oggi, ribadita più volte la scelta
della scrittura di Sabino Caronia, cioè quella di mettere a disposizione del
lettore la sua profonda cultura. Con citazioni e rimandi da lui
interpretati, sempre si fa rappresentare
da altri, altri poeti in questo caso. Del resto Sabino è stato per tanti anni
professore di italiano e latino nei licei, dove ha trasmesso cultura e
istruzione alle nuove generazioni – anche io, a dir il vero, quando lo leggo mi
sento alunna, molto imparo della letteratura -. E poi non dimentichiamo che è un
acuto critico che è abituato a parlare di Altri, anzi ama parlare degli Altri,
piuttosto che di se stesso. Il presente di qualsiasi essere umano presuppone il
suo passato, quello costruito con la propria storia. Questa potrebbe essere la
spiegazione nel mondo del reale, della mera cronaca, senza voler qui
approfondire una ricerca più sottile e più delicata nell’interiorità di Caronia
che, in altra occasione, mi sono permessa di analizzare o per lo meno di
suggerire. Riflessioni sempre del tutto personali di una lettricearchitetto che, per
deformazione professionale e impostazione di metodo, va alla ricerca del
progetto e della conseguente sua edificazione. Ma qui, invece, vorrei
brevemente accennare come, nel suo irrinunciabile modo di affrontare la scrittura
per comunicare, io trovi una profonda differenza fra la sua prosa e la sua
poesia. Mentre nella prosa le continue citazioni (nel libro dedicato a Jim
Morrison, ad esempio, occupano buona parte del testo) spezzano la narrazione
impegnando il lettore su due fronti : l’uno occupato da Sabino Caronia e il
secondo da altro scrittore o altro personaggio che interviene nel testo con
parole che appaiono slegate perché estrapolate da altri contesti, nella poesia,
invece, questo avviene in modo lineare e senza disturbo, anzi è gradevolissimo,
completa senza contrapporsi. La poesia stessa si presta meglio a questa
operazione perché è fatta di parole che traducono solo flash, di immagini o di
stati d’animo. Personalmente sono quindi
grata che Sabino faccia rivivere alcuni autori (come ad esempio Giorgio
Caproni, che è fra i miei preferiti) nel regalo di loro versi famosi , e che
prende come spunto, per poi mirabilmente svilupparli e farli propri con
musicalità, ritmo, armonia. Mi spinge a studiare, ad approfondire. Ecco, che
sia proprio questo “Il secondo dono”, questa seconda opportunità che Caronia ci
dà di godere ancora di versi che rappresentano la poesia lirica del novecento
così piena di suggestioni?
Ultima osservazione è che nella
poesia, diversamente dalla prosa, non ci si può nascondere. Quindi Sabino
Caronia viene fuori in tutta la sua autenticità, con i dubbi e le lacerazioni di colui che con la
sua fatica di vivere cerca di costruire un senso, una direzione. La prima parte
di “Il secondo dono” la trovo più bella e incisiva con le liriche: A Giove
Anxun, Innamorati, Come gemma d’anello, Ogni terzo pensiero, Sotto diverso
cielo.
Ma, per me, la gemma della
raccolta è La stanza, che non può passare inosservata ad un architetto alla
quale, quando legge e scrive, piace abitare l’anima.
Concludo proprio con questa poesia: La stanzaAltra cosa non chiedo dalla
vita/che una stanza per me dentro al tuo cuore,/povera, niente lusso, ma
pulita,/poco spazio mi basta e poco amore./ Un oceano di stanze interminato/ è
l’immenso palazzo del tuo cuore,/non lasciarmi di fuori col passato,/non
chiudere la porta al mio dolore.
La melanconia della rima in Sabino Caronia di Giorgio Linguaglossa
Sabino Caronia Il secondo dono Progetto
Cultura, Roma, 2012
Recensione pubblicata sul n. 54 della rivista i Fiori del Male diretta da Antonio Coppola e sul blog Moltinpoesia il 25 giugno 2012
Il secondo dono, così
semplicemente si intitola questa plaquette di Sabino Caronia, quasi a celare un
pudore inespresso o a dissimulare una ritrosia più che manifesta, quasi a
chiedere venia per tanta improntitudine di apparire quale autore di un mannello
di liriche. E liriche d’altri tempi, quando ancora c’erano i bambini che
giocavano con l’aquilone su nel cielo e calciavano il pallone ad ogni cantone
del trivio o del quadrivio. Ma oggi che l’arte della simulazione si manifesta
con la singolare propaggine della scaltra dissimulazione di massa, dico, oggi,
che altro dire di una lirica che si rivolge ad altra lirica del passato come ad
uno sconosciuto elitario interlocutore che mai più vedrà la luce se non nel
segno di un altro segno o in una cosa chiamata sogno, che forse mai più
incontrerà il proprio interlocutore?
Ma la «simulazione» messa in
opera da Sabino Caronia che cos’è? La simulazione del poeta di Corte? La
simulazione del saltimbanco? La simulazione del carnevale? O quella del lirico
intonso che fruga nel cassetto della memoria quanto sia sfuggito alla memoria?
Né l’uno né gli altri, credo, ma soltanto un segno che cita un altro segno, un
sogno che cita un altro sogno come un segnale di fumo che risponde ad un altro
segnale di fumo, o un movimento del sopracciglio che risponde al tremore di
lontanissimi sussulti delle foglie di un bosco lontano. Sì, dalla nostra epoca
dell’oblio tutto il passato appare lontano, transeunte (o forse lo è davvero),
tutto ci invita a cogliere l’attimo, come quando Adamo si convinse che fosse
giunto il momento di addentare la famigerata mela. E così, Sabino Caronia si è
deciso ad addentarla la mela, si è deciso a lanciare nel vento queste esili
liriche nell’epoca che ha visto tramontare, e forse per sempre, la grande
lirica del Novecento, lanciarle con la riluttanza e l’incredulità con cui oggi
i bambini trattano gli aquiloni.
Giacché invano si cercherebbe in
queste liriche il timbro originale, il marchio, la voce del poeta del nostro
tempo, perché quella mandel'štamiana «bocca d’argilla» non può profferire, oggi,
nient’altro che segni semantici di un’altra epoca poetica, quasi a volersi
schermire dell’odierna. Forse, la simulazione è oggi l’unica innocua arma a
disposizione del poeta per gareggiare con l’impossibilità dell’utopia, Caronia
«parte dalla negazione radicale del segno come valore» ci dice Baudrillard,
parte dalla reversione e messa a morte di ogni referente. È l’edificio della «rappresentazione»
che qui è caduto senza alcun fragore, in quanto «falsa rappresentazione». È la «simulazione»
che confligge con la «rappresentazione». La citazione diventa simulazione, e
viceversa. Simulazione della poesia che avvolge l’«edificio della poesia» con
una cortina di sottilissima nebbia, con aure e atmosfere che la distruzione
dell’aura ha sancito dopo Baudelaire.
È la poesia moderna che parte
dalla presa d’atto della caduta dell’aura e di ogni corona di alloro dalla
fronte dei poeti. È un gioco puro, un puro gioco che si sostituisce al grande
gioco di quella che fu un tempo lontano la grande poesia lirica del Novecento.
E, in una certa misura, queste poesie di Caronia sono la liturgia di una
tradizione scomparsa, epicedi di un lutto che portiamo al petto di una
inestinguibile malinconia... e in ciò soccorre il poeta di Terracina la sagacia
del verso dei crepuscolari, l’andamento da confessione, tra la filastrocca e la
ballatetta, dell’io che si autoconserva mentre pronunzia la propria disparizione,
tra rimandi impliciti ed espliciti alla recente tradizione tra Corazzini e Cardarelli,
i preraffaelliti e i sopravvissuti poeti dell’evo moderno.
Ciò che svia il discorso poetico
di Caronia dal soliloquio dell’io, ciò che lo distingue non è il suo smarrirsi
tra le pieghe di una interiorità rastremata ma il suo sottrarsi alle pieghe
avvolgenti e carnivore di un Hinterwelt
reificato (e deificato) e posticcio che non seduce altri che gli odierni
cannibali dell’interiorità rastremata e frastagliata, i falsi affittuari dei
dolori dell’io, così posticci e fasulli da intimidire il lettore intelligente. Non
c’è il quotidiano ma le reliquie del quotidiano. Direi che non c’è alcun
paludamento in questi versi, nessun ricorso alla seduzione e all'incanto da
vendere all'ingrosso, tranne la melanconia della rima che si maschera con quel
poco di cerone che le rimane.
lunedì 24 giugno 2013
Rita Pacilio su Nelle tue stanze di Marzia Spinelli
Recensione pubblicata a dicembre 2012 sul blog di Rita Pacilio
Le immagini poetiche racchiuse nell'eleganza del verso utilizzato da Marzia Spinelli Nelle tue stanze, plaquette
per Le Gemme di Progetto Cultura, a cura di Cinzia Marulli, penetrano i
sentimenti oltre il visibile, il condivisibile. Al lettore/interlocutore viene
affidato, abilmente, il senso compiuto di un itinerario emozionale e personale dell’assenza.
La mancanza di un membro familiare e l’elaborazione dell’abbandono mediano, in
poesia, l’accumularsi di diversi piani di ammonimento, analisi, scrupolosa
considerazione del compiersi. Le
regole retoriche del linguaggio si rassegnano di fronte all'ammasso di numerose
voci invisibili e mai smarrite, vissute come tracce plausibili in continua osmós, "spinta, impulso’, per discernere l’atto della vita dal
pensiero della morte. L’elegia del significato non ricade nella storia
malinconica dell’esperienza personale vissuta dall'autrice, ma si veste di
universalità narrante, trascrivendo le cose intorno a sé e dentro di sé come
lettura filosofica del simbolo urgente e compagno di viaggio. Spinelli supera
le distanze infinite comuni all'umanità, non si smarrisce di fronte alla Madre
che vive luoghi e stanze colme di essenza e di verità: si colloca, invece,
nell'equilibrio del pensiero del corpo
dilatato (Josè Lezama Lima, Eugenio Barba) con la consapevolezza della
figlia matura, che rinuncia, che comprende, che riconosce il ciclo vitale e lo
accoglie. Gli ambienti sono i punti di partenza e di arrivo: il lettore viene
coinvolto nella compassione attiva,
un sentimento che in Oriente significa pregnanza empatica, che condivide, dunque
simpatetico. I passi dolorosi del lutto traducono altre dimensioni e l’autrice
sa contenerli in versi che non sfuggono alla bontà della poesia contemporanea.
La celebrazione temporale e fisica del distacco rispetta la ricerca della
continua protezione del sé spirituale/intimo per sottolinearne la presenza nel
tempo di una memoria che presuppone il contatto con la vita. Non si frantuma il
senso del dentro, né quello del fuori. Nelle tue stanze domina con
maestria l’eterno esoterico,
enigmatico rapporto corpo/anima a cui tende l’universo intero.
Cinzia Marulli Ramadori - Tra la memoria e il tempo - lettura della raccolta poetica Nelle tue stanze di Marzia Spinelli
Recensione pubblicata il 1° maggio 2013 su Escamontage
Nelle
tue stanze di Marzia Spinelli
edito dalla casa editrice Progetto Cultura nella collezione di quaderni di
poesia Le gemme - da me curati -
segue di tre anni la prima raccolta poetica Fare
e disfare della Spinelli; si distingue da quest’ultima per la tematica mentre se ne avvicina per lo stile conciso e
personalissimo dell’autrice.
E’ dunque il naturale
seguito di una voce poetica che si sta sempre più inserendo come voce
importante e significativa della poesia contemporanea.
Con Nelle tue stanze la
Spinelli ci fa un dono particolare: una raccolta poetica
tutta incentrata sulla memoria della madre. Una rarità da un punto di vista
letterario considerato che il tema della madre è stato ampiamente trattato in
letteratura, ma quasi esclusivamente da autori uomini con, ovviamente, la
prospettiva maschile del ruolo materno; ricordiamo, solo per citare qualche
autore: Umberto Saba con Preghiera
alla madre, Giuseppe Ungaretti con La
madre, Salvatore Quasimodo con Lettera alla madre, Eugenio Montale con A mia madre, Giorgio Caproni con Preghiera, Pier Paolo Pasolini con la
sua famosissima Supplica alla madre,
da ultimissimo Elio Pecora con il suo poemetto Nel tempo della madre; in tutti questi versi la madre è sì una
figura reale, concreta (a differenza di quello che invece succedeva nella
classicità dove la madre era una figura esemplata su un modello universale), ma
pur sempre ritenuta un essere perfetto, sublimato. Unica eccezione è Elio
Pecora con il suo poemetto Nel tempo
della madre, dove troviamo l’umanissima madre Elena; in campo femminile mi
viene in mente la madre Isuzza della
Morante, ma anche qui si tratta di un personaggio di un romanzo (La Storia ) e non della madre dell’autrice.
Profondamente
significativo è il titolo stesso dell’opera: la stanza come ha ben detto Sabino Caronia in una nota critica all’opera
della Spinelli ci ricorda Giovanni Cristini e la sua epigrafe borgesiana messa
a premessa del poemetto che s’intitola proprio La stanza: tutta la storia
dell’umanità può essere scritta sulle pareti bianche di una stanza.
Quindi il titolo ci
conduce attraverso un luogo del ricordo; è Marzia stessa che ci apre la porta
della sua memoria per farci entrare in luoghi intrisi di storia; ma qui non
troviamo solo la madre Lina, c’è anche quello che Lina ha lasciato, c’è sua
figlia, le sue nipoti.
La storia di una
famiglia diviene la storia di tutte le famiglie perché non ci sono archetipi,
figure ideali o idealizzate. C’è la vita, la concretezza del reale e la
trasmissione del sentimento della perdita. La figura della madre vista dagli
occhi della figlia, che è madre a sua volta, perde quella freddezza dello
stereotipo e diviene carne, passione, amore.
La madre di “Negozio di
pietre” è l’identificazione della propria madre nella figura di un’altra madre incontrata
per caso: ed è una figura umanissima; basti leggere i versi ha capelli come i tuoi questa invisibile
piccola statua.
Ma in questa poesia si
ravvisa anche una sorta di finalità dell’autrice, un messaggio che invia a
tutti coloro che hanno ancora a che fare con i propri genitori, vecchi malati,
a volte difficilmente trattabili nella quotidianità della vita. Ci lancia
questo messaggio proprio mettendo in evidenza l’indifferenza della figlia nei
confronti della madre e dicendo: alla
figlia padrona che annuncia i saldi/volevo dare un segnale,/ma solo per me la
coincidenza, la pena, le pietre da sgranare/.
Si può dire che in
questo libro il protagonista, o meglio i protagonisti sono le sensazioni, le emozioni
lasciate dalla memoria; esso sembra nascere da un’urgenza dell’anima, come
risposta al vuoto della perdita, ma anche come desiderio di dire ancora alla
propria madre tutte quelle cose che non si è fatto in tempo a dire. E proprio
il Tempo con la T
maiuscola ricorre quasi in modo ossessivo nei versi della poetessa: già nella
prima poesia troviamo
... mi
nascondo al Tempo/, nella quarta c’è e
decifrare insieme il battito del Tempo, nella quattordicesima ... Ora so che è semina il Tempo, nella
quindicesima come non ci fosse stato
avviso/e mai in bilico il Tempo, nell’ultima appare addirittura due volte: nel gelo del Tempo e Il Tempo di passa sopra.
Il Tempo dunque come
persona-personaggio che trascina con sé la vita, la memoria, le opportunità. La
dimensione spazio-temporale dei versi dell’undicesima: l’ultima stanza è l’ultimo giorno,/ il più lungo poi ti portano via.
E’, questo libro della
Spinelli, una vera gemma, un dono dell’autrice che arricchisce la poesia
contemporanea, una voce necessaria. I posteri, ne sono certa, me ne daranno
conferma.
Cinzia Marulli Ramadori
Nota dell’autore: come
curatrice della collana nella quale Marzia Spinelli ha pubblicato la sua ultima
raccolta poetica Nelle tue stanze, mi
sono detta che probabilmente non sarebbe stato deontologico scrivere e
divulgare una nota di lettura della sua raccolta; ma in me non c’è nessun
doppio fine, nessun scopo pubblicitario se non l’esigenza vera di esprimere
attraverso questo scritto il mio grande apprezzamento per la sua opera.
Considerato che la poesia
non è mai del poeta che la scrive, ma diviene un dono all'umanità, la mia è
una gratitudine sincera che nasce dall'anima – come, del resto, è
necessario che nasca la gratitudine - nei confronti di questa poetessa così
minimale e riservata eppure così grande nella sua poesia.
VIII
a dimenticare la voce
ci vogliono anni, mi dicono.
Parlano come sapessero
tutto dei morti. Hanno pena sincera di me,
straniera approdata.
Stesso dolore, stesso cuore pesto,
abisso che si tace, se ne parla da soli
come colloquiano i matti.
X
le foglie rosse nella tua stanza,
inutile raccolta, insostenibile il vuoto
affacciato su questo nulla,
peggiora di giorno in giorno,
inutile l’acqua e l’aria,
le più frantumate s’insinuano agli angoli
del parquet divelto,
non avvertono, non lasciano traccia
le più leggere che volano via.
XIV
l’amo della memoria
è una corda pendula, il gancio
su un’attesa da riempire,
pestando a terra come fosse uva.
se agronomi della vita o geometri dell’aria
lo sapremo alla fine. Ora so che è semina il Tempo,
porta tutto a vendemmia, anche le stelle.
XVII
In sogno scopro felice che sei viva,
ma l’abbraccio non ha presa,
infilo gesti in un’ assenza
di attrazione,
dura finché chiedo se sono
alla vista, al tatto, di qualcosa.
Dovrei essere anche senza di te,
risponde il corpo che formicola.
XIX
solo i poeti sanno la nascita
segnata dalle stelle, la veglia di luce
su le colpe che diventano preghiere,
su quali chiodi fissi vigila
il pieno e il nuovo della luna.
Nel tempo che dormiamo c’è un arresto
o un ignoto accelerato
dalla staffetta dimenticata della morte.
XX
Siede il Novecento
su la tua schiena curva
di superstite
air bag di bombe e di rese
era cibo la
Storia nel guscio
chiaro dei più limpidi ricordi
la guerra, il matrimonio, la mia nascita
il diario comune di ragazza
nell'infinito sbando dei venti
e le tempeste
l’arco minuscolo, la parabola,
il perimetro del mio secolo.
Marzia Spinelli
da Nelle tue stanze,
Ed. Progetto Cultura 2003, Collana Le Gemme, 2012
L'amo della memoria - Paolo Carlucci per Marzia Spinelli, Nelle tue stanze
Memoria come mosto di vita e di emozioni, dove il rito di
passaggio è .. lutto scandagliato da gesti
infilati in un’assenza/ di attrazione. Marzia Spinelli, nel suo secondo
libro di versi, Nelle tue stanze,
dedicato al ricordo vigoroso e struggente della madre, ritrova il sogno di
restituire dall'ombra una colla d’affetti
che da privati si fanno colloquiali,
chiuse come urna nella tua stanza/ le nostre verità, coltivavano tutte/ spighe
di grano, ciliegie che divoravi. Segreti confusi con scaglie di
quotidianità, di storia comune ed
umanissima, resa pubblica nella sua forza di correlativi oggettivi in cui il
Tempo si fa minuto di cose in una fatica storica d’ amore, non a caso il
cibo, la convivialità tornano frequenti nella poetica della Spinelli, abile a
risolvere nel quotidiano che la fa ricca, la metafisica delle maiuscole, il
Tempo, la Morte ,
l’Assoluto. Sembra avere un manzoniano
culto della storia, corale per organo di cose, che vibrano la Storia , la Spinelli , che si fa regista corale e lirico di un film
denso di suoni, odori e fatti, zoommati con maestria. Siede il Novecento/ su la tua schiena curva/ di superstite/ air bag di
bombe e rese/ era cibo la
Storia nel guscio/ chiaro dei più limpidi ricordi/ la guerra,
il matrimonio, la mia nascita/ il diario comune di ragazza … l’arco minuscolo,
la parabola, il perimetro del mio secolo.
Risponde alla morte un corpo che formicola, che,
di stanza in stanza, nella tana
dell’infanzia mi rintraccia la memoria … è
corda pendula, il gancio su
un’attesa da riempire/ pestando a terra come fosse uva. Nel percorso di queste stanze, dove frastorna
la memoria, trova spazio anche la voce del padre che Tuona dolce/ Svegliati figlia, / tengo il tuo respiro nell’incavo della
mano. Immagine bellissima in cui si dona un calore ed un’intensa forza
d’amore, di cui anche il lettore è
discreto fruitore del gioco d’amorosi sensi che s’intesse nel nido fisico e
storico di una famiglia nella gran vendemmia del Tempo. E davvero, strofa dopo
strofa, addentrandoci in questo canzoniere minimo e sonoro di acuti lirici, ci
dissetiamo al suono di luce del quotidiano, ricamato con dolcezza e modernità espressiva, la sete di questi versi è il tuo ricordo/ bevo gocce di vitamina/ come
la spremuta che offrivi … Anche la
natura si veste di questo ventilare
della storia le foglie rosse nella tua stanza …
inutile l’acqua e l’aria/ le più
frantumate s’insinuano agli angoli/ del parquet divelto,/ non avvertono, non
lasciano traccia,/ le più leggere che volano via. E nella radura dell’infanzia piccolo l’angelo di pietra, il viaggio ai
lari familiari, il cimitero sembrava un giardino di pace/un posto dove curiosare
i nomi/ dei vecchi, delle mamme,/ di altri bambini. Anche qui il tema letterario di ascendenza pascoliana e
non solo, si fa storia di un gioco d’occhi, regalandoci lo stupore curioso tipico dei
bimbi. Si ricollegano a questo filo d’infanzia le prime stanze, in particolare la breve, ma
prodigiosa rievocazione lirica del mare e
della prima raccolta di conchiglie. Capolavori assoluti sono infine, Negozio di pietre, dove il dialogo
s’infittisce di oggetti che danno il senso dell’orologio del tempo e degli
affetti, e di echi di voci contemporanee rese poetiche - guarda la figlia darmi il bancomat- digito il pin con dita d’onice- l’occasione
commerciale dei saldi è viatico prezioso che gemma ricordi in un qualunque mattino caldo / d’anniversario. Fortissimo, in
conclusione, il “testamento” della stanza XI, ove in maniera epigrafica risuona
l’acerbità indicibile di un distacco, reso senza retorica, intimo e vero,
anche nell'equilibrio dei termini : L’ultima stanza è l’ultimo giorno, /il più
lungo, poi ti portano via.
Marzia Spinelli e l'amo della memoria di Sabino Caronìa
Pubblicato nel numero di Aprile 2013 di Studi Cattolici, mensile di studi e attualità diretto da Cesare Cavalleri
Rispetto a tanta poesia odierna
che è puro gioco, finzione fondata sul nulla, pura mimesi di un vuoto senza
fondo, Nelle tue stanze (Progetto
Cultura, Roma 2012), ultima raccolta poetica di Marzia Spinelli, propone versi
che riecheggiano una controllata eppure accorata sofferenza, una sincera
nostalgia, un’innocente aspirazione ad una condizione umana non degradata.
La linearità del linguaggio,
immune da cadute, è al servizio di una consapevolezza esistenziale che non teme
di affrontare con sicurezza la realtà. La speranza, per la poetessa, si fonda
su un’istanza etica profonda, quella stessa oggi così trascurata, così temuta,
si direbbe, ma l’unica vera, la stessa
di cui è espressione il componimento che intitola la raccolta «sempre
sarà il suono / nelle tue stanze / e la tua voce» (p. 30).
Vien fatto di pensare a Giovanni
Cristini, all'epigrafe borgesiana premessa al suo ultimo poemetto La stanza («Tutta la storia dell’umanità
può essere scritta sulle pareti bianche di una stanza») o, ancor prima, alle
parole poste a commento di un precedente componimento, La luna sul Tuckett: «Anche i poeti, dici, sono dei visionari,
quasi quanto i filosofi. E gli uni e gli altri si affacciano a questa finestra
sul mondo da una stanza “che brucia e non si illumina”. E forse attendono la
frana, il crollo».
Dunque, dicevamo, Borges e la
memoria.
Ma anche Kafka.
Non a caso, forse, dal momento
che la poetessa lavora come già Kafka alla direzione generale dell’INAIL.
In proposito leggiamo: «L’amo
della memoria / è una corda pendula, il gancio / su un’attesa da riempire, /
pestando a terra come fosse uva. // se agronomi della vita o geometri dell’aria
/ lo sapremo alla fine. Ora so che è semina il Tempo, / porta tutto a
vendemmia, anche le stelle».
Si pensa al kafkiano Castello, alla figura dell’agrimensore, di
quell'individuo d’eccezione che ne è il protagonista (landvermesser in tedesco significa appunto agrimensore, geometra,
ma anche tipografo), alla sua fiduciosa speranza di riconciliazione con
l’assoluto, lo streben, la tensione
perenne dell’anima, alla sua condizione di straniero in un paese così tetro, al
contrasto tra la sua vocazione artistica e la professione, l’ufficialità e l’ufficiosità
dell’assunzione.
L’autentico, come sempre, è la
matrice della poesia, anche di quest’ultima raccolta poetica di Marzia Spinelli.
Laura Ranieri su Nelle tue stanze di Marzia Spinelli
Recensione pubblicata il 23 maggio2013 sul blog ViadelleBelleDonne
Quest’opera assolutamente unitaria, si sviluppa in XXIV composizioni,
cui si aggiunge una breve poesia iniziale in corsivo, dopo le citazioni di
versi di autori che parlano della madre, e un’altra finale sempre in corsivo
che fanno da cornice al poemetto e ne riassumono il significato.
La morte della madre è, a vedere bene, la nota dolente ( la più dolente
per una figlia ) che sprigiona nella figlia scrittrice versi sofisticati quanto
naturali, dove esprime la propria maturazione di pensiero e di affetto fino a
quel punto del suo vivere.
Come se si sprigionasse dalla morta madre ancora un travaso di energie alla
figlia. O come se la scrittura potesse creare la magia di prolungare il
colloquio con la madre. Ma il vero significato dell’opera sta nella riconsiderazione del Tempo (
spesso scritto con lettera maiuscola ) riguardo la morte della madre, il
rapporto madre-figlia, la loro storia dentro la più vasta Storia. La capacità della Spinelli di trascendere il
dolore per considerazioni più ampie, apre la poesia non solo a scenari di
dolore e morte.
Il tempo dunque ( Tempo) è il vero motore e il leitmotiv di tutta
l’opera.
Nella
prima poesia in corsivo, l’Autrice dice che “si nasconde al Tempo” e che nella
stanza vuota della madre “mi rintraccia la memoria”. Nell'ultima poesia sempre
in corsivo si parla del Tempo tiranno, egoista, che vola e sorvola su tutto
senza mai piegarsi a una commozione pur di mantenere la durata. Unico scopo
del tempo è dunque “durare”. Ma forse c’è qualcosa che lo piega, anche per poco:
il dolore e l’amore umano, gli unici due sentimenti che possono inchiodare il
tempo. Fermarlo per un poco. Porre l’uomo di fronte alla nudità di se stesso:
come dice filosoficamente Cioran nel suo libro da meditare: “La caduta e il
tempo”.
E’lì che nasce l’eterna domanda, attribuita poeticamente al Tempo, con
spostamento di soggetto, : “chiede chi siamo/ perchè poi infine ce ne andiamo”.
All’interno di questo assunto o di queste domande si snodano le altre poesie
con variazioni sui ricordi e sul dolore, sul paese natìo della madre, sulla
relazione con la madre stessa.
L’opera è tanto più rilevante perchè, come si diceva, la Spinelli, pur
invasa da un dolore senza uguali, riesce ad inserire la vicenda in una storia,
in un ambiente, nel tempo presente, e nel Tempo.
E per tutta la vitalità che vi percorre è in
grado di suscitare emozioni, che non è cosa da poco. Come
per altri poeti e non poeti, anche se tutti razionalmente pensiamo che è
naturale morire, quando la morte ci strappa le persone care, il sentimento si
ribella ad ogni accettazione e implora nei sogni, nei pensieri, nei desideri, e,
se è un poeta, nei versi: implora la vita.
Meglio del Foscolo nei “Sepolcri” nessuno ha considerato
questo aspetto che investe come una tempesta il nostro sentimento e gli fa
porre quella domanda eterna: “perchè infine ce ne andiamo”? Come se di fronte a
questo nulla o a questo tutto che ci attende nella morte, fossimo assolutamente
inermi e ingenui come un bambino.
Il libro di Marzia si addentra lentamente nel turbine
della morte, quasi voglia prima tessere una ragnatela di memoria e di vita: la
prima poesia che a mio avviso è tra le più belle “ I paesi del Metauro”, luogo
evidente di provenienza della sua famiglia, ha un fascino particolare,
pascoliano, dove nulla è definito ma bastano alcune pennellate di versi a
ricreare l’ambiente, naturalmente non quello geografico ma quello che Lei vede
oggi come poeta a distanza di tempo.
La “notte” è citata per ben tre
volte così come il termine “ombra” e “buio”. La notte dunque percorre i paesi
del Metauro che l’Autrice conosce ma nel buio, che diventerà da lì a poco
mortale, brilla la neve bianca e la valle aveva la sua luce. Sembra davvero un
quadro impressionista. Può darsi che anche nell’aldilà per Marzia ci sia un
pieno di luce. Lo si legge qua e là tra le righe.
Tra quella luce e il buio, tra la vita e la morte, quell'ambiente
costituito dai paesi percorsi dal Metauro, “fu sempre specchio, filo/
d’Arianna, fune ogni oltre dove”. Il legame ombelicale con il paese rispecchia
il legame e il nodo con la madre. C ’è bisogno della
fisicità di luoghi e oggetti perchè il nostro pensiero torni a far rivivere il passato, specie se
appartiene alla persona cara. Il corpo e i sensi segnano la strada.
Segue un’altra poesia, la II “Altro Natale” dove l’Autrice offre pane
spirituale (la poesia che va componendo) e cibo, dunque sostentamento ai suoi
famigliari, condito con “una colla di affetti”. Anche la madre avrà fatto così,
anzi altrove si accenna a cibi preparati e anche traslocati a casa della
figlia, “una fatica storica d’amore” in segno di aiuto e di affetto. Il giorno
dopo quel cibo era un amore sbriciolato, cioè consumato, tanto stretto il nastro
che lo tiene legato che bisogna tagliarlo. “Amore sbriciolato” offerto a tutti.
“Nodo stretto” che ogni figlia deve tagliare con dolore per una propria auto
identificazione. L’idea dunque che si riceve è che, nonostante la ferita, il
collante dell’affetto vinca, lo stesso che la madre nutriva per i figli, ora
viene travasato come da vaso a vaso dalla propria figlia nella nuova famiglia.
La vita dunque ha il sopravvento e il Tempo che uccide qui subisce uno scacco.
Ecco dunque addentrarci nel cuore del libro: la morte. E qui, come si
legge in quasi tutte le raccolte poetiche femminili dedicate a un buon rapporto
con la propria madre, anche se mai privo di qualche nube, vi sono, sia pure in
sordina, decifrati tutti i sentimenti che in quel tragico momento una figlia
può provare.
Vi è anche l’altra letteratura femminile che canta una madre terribile
ed assente, di cui la poesia più espressiva e radicale fa capo ad Anne Sexton:
la perduta eredità della figlia Anne, il mancato passaggio delle consegne da
donna a donna con sua madre Mary Gray (Anne giocherà sarcasticamente sul nome
“Maria”) era la causa principale del suo malessere esistenziale, della
negazione del suo corpo, e della incompiuta sua identità.
Ma qui si tratta di una buona relazione e la mancanza della madre
provoca un totale senso di orfanezza, come nuotare in un nulla e in una nebbia
che pare senza ritorno. Come subire il più forte sradicamento o perdere una
metà di se stessi. “Insostenibile il vuoto/affacciato su questo nulla”.
Il taglio ultimo del cordone ombelicale. La mancanza della possibilità
di colloquio. Lo scorrere del tempo che non ha più valore perchè “m’ha fermata/
alla tua ultima estate”.
La volontà infine di confondersi con la madre, per potersi identificare in
lei: “E’ il volto mio o il tuo? “
La rivisitazione degli ambienti
dove la madre ha vissuto, del paese dove è nata, il nominare e l’affidarsi agli
oggetti cari alla madre o alle foglie rosse nella sua stanza: sembra al momento
l’unica possibilità, l’unico desiderio della figlia che può dare sollievo.
Spuntano anche i sensi di colpa, che in questi casi non mancano mai: c’è
sempre qualcosa di deficitario, qualcosa che la figlia poteva fare in più, e
anche la madre avrebbe avuto altro da dire e “lasciarmi/ tutto compiuto e darmi
pace”.
E altrove dopo un quadretto idillico adatto a una Demetra e Kore,
parlando dei fiori, ecco affacciarsi il senso di colpa :”Di quelli almeno non
ho mancato”.
La naturalità e la leggerezza con cui vengono espresse queste verità in
versi ben ritmati tra classicità e modernità: rendono vitale il contenuto del
libro.
Poichè non farà meraviglia che la poesia femminile rivolta alla madre
morta esprime quasi esattamente le stesse caratteristiche, quasi un topos, o
una reazione del corpo e dell’anima uguale per tutte.
Ma sarà lo stile come in questo caso e la capacità di ovviare a un
diario a captare l’interesse del lettore.
Poi il seguito poetico si stempera in altri ricordi e in altri afflati
d’affetto, dove emergono, quasi altalenando con poesie più private, alcuni
componimenti più astratti e di alta perfezione.
Uno è certamente la
poesia XIV “ L’amo della memoria” che termina ancora con l’immagine
di un Tempo che semina “e porta tutto a
vendemmia anche le stelle”. Come se l’Autrice volesse ingaggiare una
competizione tra “memoria “ e “Tempo” dove si sa che quest’ultimo alla fine
vincerà su tutto, dove però la memoria è l’unica possibilità umana per fermare
il tempo.
Un’ altra, la più lunga del poemetto, che richiede buone capacità
costruttive, é “Negozio di pietre.”
Quasi un racconto in versi, molto
lunghi alcuni e prosaici, alternati con altri brevi che nell’insieme danno il ritmo.
Una storia al presente tra una figlia padrona che vende pietre – sotto la cui
durezza viene sigillato il pianto di Marzia- e che disdegna la madre, mentre
l’Autrice capita ( capita?) al negozio in un mattino d’anniversario, forse
l’anniversario della morte della madre. Vorrebbe dare un segnale a quella
figlia che ha ancora la madre viva, ma le pietre rimangono nella loro durezza e
il silenzio e la pena è solo sua.
Nasconde questa vicenda un altro senso di colpa cui ora è tardi per
riparare e si vorrebbe che altri sapessero? Lasciamo in sospeso che la poesia
può assumere vari significati.
Mano a mano che il corpo della madre si allontana, si affacciano nelle
poesie della fine il tema della voce, il suono di quella voce che è rimasta nei
timpani e che sarà l’ultima a morire, l’apparizione di sogni che le riportano
invano la madre, ma soprattutto c’è l’ avvento della scrittura, di quei versi
che già aveva detto di stare scrivendo nella poesia II, già citata “Altro
Natale”.
Tutte strategie di cui il nostro pensiero si serve per richiamare in
vita chi non c’è più.
Ma qui, come ho detto, c’è la poesia.
Il componimento XX “Siede il Novecento/su la tua schiena curva/di
superstite” è un esempio bellissimo di inserzione della propria storia
famigliare nella Storia, per giungere alla propria: ” La guerra, il matrimonio,
la mia nascita” . Pochi versi sono in grado di offrirci un quadro pieno di vita
e di storia di tutti. Qui l’utilizzo della Storia appare come un tempo dilatato in cui ognuno di noi, come un
granello minuscolo, attecchisce grazie all’amore ( o anche al caso o al
disamore ) dei genitori. E da qui la vicenda umana ha inizio, per la madre, per
Marzia , per ognuno di noi che nascendo siamo caduti nel tempo.
Ma, dice la nostra poetessa nella
poesia XIX “ Solo i poeti sanno la
nascita/ segnata dalle stelle...”
Giorgio Linguaglossa su Nelle tue stanze di Marzia Spinelli
Recensione pubblicata sul blog moltinpoesia il 24 gennaio 2013
La sostenutezza
formale di questa raccolta di Marzia Spinelli indica appunto che ci sono dei
sostegni, delle travi portanti, delle mensole che tengono insieme il
calcestruzzo «povero» della costruzione poetica; è indice di ciò che altrove,
sul pianeta Terra, viene stimato essere cosa gradita tra interlocutori che si
scambiano convenevoli, fatuità e prolegomeni. Le poesie sono un po’ i
prolegomeni a una vera vita che ancora non c’è. E questa raccolta sembra quasi
scritta da un poeta che non si vede (che passa tra le ombre domestiche che
vengono scambiate per luce) per un mondo che non c’è, che ci parla di una
estraniazione dal punto di vista di un estraneo alla vita, ci parla di un mondo
che sembra essersi dileguato: l’infanzia, la memoria, la stanza vuota, l’ultima
estate, le stanze abitate, disabitate. «Nelle
tue stanze» potrebbe sembrare un titolo eccessivamente generico proprio per
quel suo restringere il campo semantico della significazione ad un luogo di quotidiana
frequentazione. Un luogo (quello della «stanza» con tutta una serie di
variazioni) con la consapevolezza che non in esso c’è il salvagente, un luogo
che è diventata la soglia di una autenticità perduta, smarrita, il luogo dei
luoghi, quei luoghi che oggi sono considerati luoghi turistici, moneta
corrente, che passano di mano in mano al pari di una moneta, che non indicano
nulla di significativo. C’è qua e là la declinazione elegiaca che appare in
filigrana:
Tace il pianto
sigillato tra
le pietre
dove la figlia
padrona fuma e vende quarzi,
dice buon
giorno come te
la madre quando
arriva, una scossa della testa
è la risposta
all’offerta della colazione
alla figlia che
non la vuole, ora che la madre è al bar
dico alla
figlia – sarebbe piaciuta a mia madre questa collana –
ma lei tace, si
volta con un sospiro, ora che la madre è tornata
va a sedersi da
padrona la figlia
in faccia alla
madre che accende una sigaretta e dice grazie come te
nell’immobile
silenzio delle pietre
guarda la
figlia darmi il bancomat,
ha capelli come
i tuoi questa invisibile piccola statua,
i gesti lenti e
l’assenza composta,
digito il pin
con le dita di onice
alla figlia
padrona che annuncia saldi
volevo dare un
segnale,
ma solo per me
la coincidenza, la pena, le pietre da sgranare,
in un qualunque
mattino caldo
d’anniversario.
È una poesia gentile che adombra il piccolo
mondo antico dell’io e delle sue formalità.
Come scrive
Adorno: «Dietro la
demolizione pseudodemocratica delle formalità, della cortesia vecchio stile e
della conversazione ormai inutile e sospetta? non del tutto a torto? di non
essere che pettegolezzo, dietro l'apparente chiarezza e trasparenza dei
rapporti umani, che non tollera più nulla di indefinito, si annuncia la pura
brutalità. La parola diretta, che senza dilungarsi, senza esitare, senza
riflessione, ti dice in faccia come stanno le cose, ha già la forma e il tono
del comando che, sotto il fascismo, i muti trasmettono ai muti. La semplicità e
oggettività dei rapporti, che elimina ogni orpello ideologico tra gli uomini, è
già diventata un'ideologia in funzione della prassi di trattare gli uomini come
cose.»*
* (Theodor W. Adorno - Minima
Moralia / Meditazioni della vita offesa - Einaudi, 1994.)
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