“Le gemme” vuole essere una collezione di quaderni di poesia dedicata a poeti contemporanei opportunamente selezionati, con il proposito di rappresentare una summa della loro poetica. L’intenzione è quella, infatti, di raccogliere le gemme di ogni autore per sintetizzarne il discorso poetico e, al tempo stesso, per facilitarne la diffusione attraverso un formato semplice ma elegante e di immediato impatto visivo.Nella convinzione che non è certo la quantità a determinare la qualità, Progetto Cultura ed io, abbiamo ritenuto qualificante dare vita a questa nuova iniziativa editoriale nella prospettiva di testimoniare momenti di elevata ispirazione poetica, tali da potersi legittimamente inserire nel panorama letterario contemporaneo per la loro unicità e significatività, sia dal punto di vista contenutistico che stilistico.“Le gemme”, pertanto, non vuole essere soltanto una collana di poesia, ma una teca luminosa dove i poeti possono mettere in evidenza i loro tesori.



mercoledì 26 giugno 2013

Paolo Carlucci su Il secondo dono di Sabino Caronia

Le ninfe son partite e solo resta/ il rimpianto del passo che innamora. Dura nel vetro degli occhi il vento dei ricordi. E’ questa la cifra di Sabino Caronia, critico e scrittore, che, in una sorta di voce dovuta a madama Nostalgia, dispiega le sue ragioni d’amore. Lo dimostrano alcuni dei suoi versi più ispirati, raccolti ne Il secondo dono, uscito recentemente per i tipi di Edizioni Progetto Cultura, nella collana poetica le gemme, curata da Cinzia Marulli. Caronia pare recuperare, attraverso  una raffinata memoria poetica che spazia da Pascoli a Cardarelli, a  suggestioni lorchiane, ismi lirici di autentica ricerca melica, che possono suonare nell’ipetrofia visiva di certi azzardi sinestetici,  forse come un cosciente ... sperimentalismo di uno stupore, risolto sovente come rondismo dell’anima. Scintille di vita, egli le  affida alla forza dell’immagine, al desiderio infinito di ridonare poeticamente i colori del cuore. In modo antico stella, nel sonetto d’esordio, l’evocazione di un’infanzia mitica. Ritornare  da te  fanciullo eterno/ che siedi  sopra il monte a Terracina./ e come Orfeo, disceso nell’inferno/ rinascere in un’ansia di mattina. La natura si fa specchio di un orizzonte del vissuto, liricamente restituito. Se il tuo stupendo  volto adolescente/ in questo  specchio magico è riflesso/ anche vive nell’anima dolente / racchiuso nel profondo  di me stesso.  Un procedere siffatto può talora cadere nella retorica del facile sentimentale, abusato miele che genera fiele poetico, ma il nostro, in larga misura, evita l’agguato, cercando nel valore umano l’incompiutezza, il vago immaginare di una nebbia di risa; nella terra desolata l’odore dell’amore è vero nel suo essere Passaggio in ombraNon avere  paura / di lasciarci  nel buio, / il tuo cuore è una fiamma/ che la morte non spegne. Ginestra di notte la passione. Il mio amore è una luce/ che la notte non spegne.     

Chiara Mutti su Il secondo dono di Sabino Caronia

In Giove Anxur, quel miracolo di marmo e tempo, esposto alla luce calda del sole che si arrossa al tramonto e che sembra ancora dominare Terracina dalla cima del monte, riflesso nell’infinita azzurrità del mare, in cui io stessa, in una bellissima gita di qualche anno fa, ho annusato il respiro degli dei, ho trovato quell’ininterrotta linea spirituale che ci unisce…quello specchio magico riflesso nell’anima dolente, quel richiamo all’acqua materna, potenza generatrice. Il libro di Sabino Caronia si apre e mi si apre così.
Ma è ad un altro tipo di fede a cui, a mio modesto parere, “Il secondo dono” è in sommo grado ispirato: l’amore. Inteso nella sua accezione più profonda.
Perché l’amore di Sabino è una fede, non nel senso comunemente inteso di spiritualità, ma in quello suo proprio di fiducia; nell’altro, nella vita dell’altro in quanto dono, costruzione del se attraverso l’altro.
Nulla nella nostra piccola esistenza è destinato a rimanere, eppure nulla si perde…
Lanterna nella notte, resta un pienissimo soleluce di luce vera – resta il vivissimo fuoco di verdi occhi chiari. Ecco l’amore è luce, è un verde di prati smeraldo/ dentro una pioggia d’oro.
La luce di questo “caldo gentile” si riaccende in immagini, in istanti di vita rubati all’oblio dal ricordo ed anche, o forse maggiormente, lì dove il paesaggio si vena di malinconia o di rimpianto, lì dove il paradiso dell’amore è un morto paradiso, l’amore non viene mai rinnegato – non sperare che possa/ mai morire il mio amore/ Il mio amore è una luce/ che la notte non spegne – L’amore di Sabino non pretende, non chiedo…che una stanza per me dentro al tuo cuore.
In questa richiesta muta che urla, verso cui si protende e da cui fugge allo stesso tempo – e tengo chiusa la porta di casa/ di fronte all’invadenza delle stelle – Sabino sancisce la propria appartenenza alla vita, alla fragilità dell’essere umano. Questa vita che corre e che, come saggiamente ci ricorda nella bellissima strofa posta a incipit dell’intera raccolta, dura il tempo di una sigaretta, ecco lì riconosco l’essenza, il valore di quel “qualcosa di più” che esula da altre vane speranze. Trovo il più intimo, il conclusivo messaggio della poesia di Sabino.
E così me ne vado
in giro per le strade
sotto più chiare stelle,
dentro il buio più nero,
ubriaco di sogni,
di speranze e di cielo.


                                                                                                                         Chiara Mutti


Plinio Perilli su Il secondo dono di Sabino Caronia

  
Articolo pubblicato nella rivista Voce Romana  - rubrica POETICANDO - Diario di un laboratorio poetico

Critico e anche narratore di vaglia, Sabino Caronia ha da sempre con la poesia un rapporto privilegiato, insieme di dedizione storica e vocazione intimistica. E vorrei almeno ricordare i suoi saggi raccolti in L’usignolo di Orfeo (1990) e Il gelsomino d’Arabia (2001), oltreché i brevi ma calibratissimi romanzi L’ultima estate di Moro (2008) e Morte di un cittadino americano (2009), su Jim Morrison, il celebre cantante e leader dei “Doors”, spentosi a Parigi a 27 anni, nel luglio 1971…
Conosce insomma a perfezione tutto o quasi il nostro ’900, di cui ama in particolare la cifra effusa e stoica di Cardarelli, ma anche il lirismo asciutto, all’inizio rorido e via via sempre più tagliente di un Caproni… Sul filo della nostra ormai annosa amicizia, e nella condivisione di non poche collaborazioni a riviste romane di buon esito (una su tutte: il trimestrale “La Scrittura”, da noi animato negli anni ’90 assieme ad Antonio Stango e Idolina Landolfi, e altri amici come Emerico e Noemi Giachery, Fabio Pierangeli, Ernestina Pellegrini, Neria De Giovanni, Eugenio Nardelli, etc.).    Spesso Sabino viene a trovarci, durante i nostri laboratori poetici del mercoledì, e s’intrattiene ad ascoltare la poesia degli altri, dei postmoderni “lirici nuovi”… Talvolta ci legge anche le sue, che solo per un pudore recondito si ostina a chiamare esercizi… Ora questo sua prima plaquette poetica, Il secondo dono, uscita presso la collana “Le gemme”, che Cinzia Marulli dirige a Roma per le edizioni di Progetto Cultura (àuspice Mauro Limiti), salda insieme un debito (che Sabino ha verso il ’900 che ama), e un credito che la musa poetica gira e offre a lui stesso…
Ci sono passi e passaggi molto belli, degni degli orizzonti che Sabino ama, onora e pratica da anni. Il versante di un’eterna, ininterrotta elegia fra sentimento e realtà, briosa fabula della vita e sua aspra, severa deriva (cioè macerazione) razionale. Mario Luzi parlerebbe insieme di Vicissitudine e forma… Ma ecco ad esempio otto riccioli lirici in due quartine, davvero capelli d’angelo, boccoli celestiali perché amorosi di una moderna nuance petrarchesca: “Per gemma del tuo anello / prendi questo mio cuore, / portalo sul tuo dito, / scaldalo col tuo sangue”…
 Da quando Saba ci ha parlato e si è battuto ancora e sempre in favore della rima fiore-amore, la più antica difficile di tutte, sappiamo che non c’è etica in poesia che possa elidere o rinunciare all’afflato medesimo del sentimento forgiato, ribaltato in sentire. Caronia ha questo coraggio, e questo dono: dono donato, che si riceve e si rende nello stesso modo… La stanza segreta del ’900 è e resta dunque in ogni poeta tutta dentro di sé, come perenneffimero osservatorio, pensatoio minimo/supremo d’ogni Realtà: “Altra cosa non chiedo dalla vita / che una stanza per me dentro al tuo cuore”…
Cardarelli, sì, il suo fragile, coerente cinismo d’innamorato d’Amore e del suo cantarlo, cantarsi… Ma anche, e appunto, la geometria emotiva, la dialettica trigonometrico/epocale di un verseggiare che adusa melodie e radiosità, prestiti e canoni, aloni ed emblemi quale unica risorsa che valga, che conti, nel dittare da dentro… 
Due suole a terra misurare alterne / l’indugio breve d’una sigaretta. / Veramente la vita è fiamma vinta.
Anche il Terzo Millennio, vuol dirci Sabino Caronia ha bisogno degli aurei, peritissimi e sinuosi orditi di un sonetto (splendidi “A Giove Anxur” e “Innamorati”); o di quei distici interni che accelerano e fissano in eterno le anse e morbide, lentissime onde d’un rigoroso, infibrato fluire poematico… “Il mio amore è una luce / che la notte non spegne”; “Cosa m’importa della primavera / senza il verde segreto dei tuoi occhi”…
Salutare poi i poeti amati e riamare in quella poesia anche la propria, non certo ad imitazione – attenzione – ma semmai a provvido specchio fraterno: “Deserta Andalusia che il cuore pungi / come pensiero di donna lontana…” (García Lorca). Ancora Cardarelli, ammaliato e pudico all’unisono d’adolescente beltà: “Che dirò mai fanciulla / nerissima di te? / Che dirò del tuo corpo / difficoltoso e vago?”… Perfino una giovane Maria Luisa Spaziani restituita all’entusiasmo dei suoi primi anni ’50: “La luna di Parigi / non è più la mia luna. / Nel suo letto di perla / più non cullo i miei sogni”… Sempre e comunque l’optimus Caproni: “Anima mia, stasera / va’ a Parigi, ti prego, / e con la tua candela, / timida, di nottetempo / fa’ un giro”…
 “Un vero e proprio corto circuito…” – ha ragione Dante Maffia nell’affettuosa introduzione – “una sorta di simbiosi che lo ha spinto ad impossessarsi di movenze e di cadenze di questi maestri, fino a suggerirgli, a volte, incipit e chiuse delle poesie che ha scritto. Un omaggio e una condanna, a un tempo, ma che Caronia ha saputo rendere personali, tanto è vero che in questo libro non troviamo soltanto i modelli citati, ma assonanze dei grandi classici”…
Le sue vere gemme più pure sono qui gli istanti, cupi ma radiosi d’argento, la catulliana “breve luce” o nuga fissata per denso monito, rimemorata, intonata ad afflato: “Se tu sparisci poi non c’è più nulla. / Nulla, più nulla. Eclissi a mezzanotte. / Era già buio, tanto buio, prima”.
Da questa fertile e lancinante “Eclissi”, sempre risorge la poesia, ci si riaccende il cuore tra fiamma vinta e cenere, fenice divinata, ansia in ogni nuovo bacio – o dono – trasmutata.
   

                                                                                                                        Plinio Perilli 

Luigi Celi su Il secondo dono di Sabino Caronia

Il secondo dono di Sabino Caronia è opera intensa, di passione, desiderio d’amare e d’essere amati, di lacerazioni e aspettative in parte deluse proprio perché investite di assolutezza; poesia in apparenza semplice, ma a ben guardare qualificata da innesti e operazioni sul linguaggio complessi, chiaroscurali, per cui la raccolta risulta infine borgesianamente labirintica, un puzzle molto sofisticato.
Caronia è scrittore e poeta che utilizza procedure letterarie che possono essere ricondotte ai meccanismi psicologici (psicoanalitici) primari dell’identificazione e della proiezione, nutrito di cultura greco-latina e della grande tradizione della poesia italiana, tuttavia ha fatto propria più di una delle lezioni del modernismo americano ed europeo. Il modernismo - che va da Pound ad Eliot, da Joyce a Hemingway a Henry Roth a Windham Lewis a Virginia Woolf, con ricadute su Kafka, Céline, Pessoa, Pirandello, Gadda, per citare alcuni dei grandi - ha tra le sue caratteristiche l’attenzione al mito, o quella di far entrare in scena personaggi, maschere, per “oggettivare”, oppure fagocitare versi e frasi non sempre dichiarati, metabolizzando pensieri d’altri autori. Eliot teorizzava questa caratteristica del modernismo: “io non cito, rubo!”. Muovendosi su questa linea in effetti Caronia è camaleontico. Il suo classicismo e il suo soggettivismo – il suo “io” a volte pare dilatarsi a dismisura - sono in tensione dialettica col modernismo. Quindi abbiamo diverse facce dell’Autore. Una scrittura prismatica, in superficie limpida, scorrevole, che utilizza molte strutture e metri propri della poesia classica - il sonetto, l’endecasillabo, il settenario, la rima, l’allitterazione, l’anafora - nella sostanza, mostra impeti magmatici, telluriche implosioni. Caronia si muove come un modernista quando si annette testi di celebri autori e sembra non aver tempo di fermarsi per precisare le sue fonti; forse perché il virgolettare sortirebbe l’effetto di togliere intensità ad un dettato lirico che è insieme autobiografico ed eterobiografico? Caronia è un ventriloquo: parla per bocca di altri; altri - Jim Morrison, Aldo Moro - divenuti personaggi dei suoi testi, parlano attraverso la sua. La poesia di p. 22, La passeggiata, è in buona parte un calco di Preghiera di Caproni; mentre a p. 24, leggiamo: “che dirò del tuo corpo/ difficoltoso e vago?”, versi di Cardarelli, questi, riportati senza virgolette; ci sono anche versi di Catullo, Kavafis, Lorca...
Anche i temi centrali delle sue opere in prosa, di critica o dei romanzi - penso a L’Usignolo di Orfeo, a Il Gelsomino di Arabia, ma anche a Morte di un cittadino americano, Jim Morrison a Parigi - confluiscono ne Il secondo dono che ci appare quale distillato di questo suo variegato impegno letterario. Tutte le sue opere sono rappresentazioni in maschera di dinamiche intrapsichiche (individuali), transpsichiche (archetipiche) e collettive. I suoi tempi non sono diacronici ma sincronici e tutti gli autori, antichi e moderni, sono contemporanei. Caronia coltiva come Tomasi di Lampedusa “il culto dell’implicito”, per cui conta di più il non detto che il detto e possiamo ipotizzare che le Sirene, oggetto di una sua insistita evocazione, cantino anche quando tacciono …, il loro silenzio è allora ancora più sacro e originario. Sarebbe sbagliato vedere in quest’opera soltanto una versificazione del sentimento amoroso incentrato sull’oggi, Sabino fa suo il pianto di Orfeo per la perdita di Euridice, con Ovidio, canta come l’usignolo virgiliano a cui sono stati strappati i suoi piccoli dal nido, mentre la nostalgia della vita intrauterina del primo componimento ci riporta all’Innocente di D’Annunzio, per cui - come scrisse Italo Alighiero Chiusano – il D’Annunzio di Sabino, piuttosto che essere un vitalista del puro presente, è “ un ‘gambero’, proiettato indietro verso la madre”. Ancora possiamo dire che Caronia simile a un Proteo si fa scrittore, critico letterario, poeta, quindi personaggio, per poi invertire la rotta, orientarsi verso la natura primigenia dell’uomo, ritornare al pascoliano “fanciullino”, “creatura”, come direbbe Sciascia, alla nudità del puer. Egli dichiara alle donne della sua vita o del suo immaginario i propri sentimenti, ma non accetterebbe mai di vivere materialmente l’eros senza un’impegnativa radicale operazione di autosublimazione poietica del desiderio. La sua scrittura è  tutta un ossimoro, è quella di un classicista romanticamente esacerbato, che vive un eros fantasmatico fino all’autocombustione. “Ladro di fuoco”, come il Prometeo di Rimbaud, “veggente dei sensi”, sprofonda nei suoi abissi inferi, rinuncia agli eliotiani “asciutti salvataggi” (the dry salvages), a quelli di una ragione un tempo apollinea - oggi annerita, affumicata dalla tecnica - per rinascere come un ricomposto Dioniso Zagreus, un Osiride dopo lo smembramento. Nel romanzo L’ultima estate (Moro, uomo solo) – romanzo, dopo la scomparsa di Andreotti, quanto mai attuale - Sabino e Moro si confondono, come si confondono lo “Iuppiter Anxurus” - “Iuppiter Anxurus arvis presidet” di Virgilio - e Gesù, il puer di Terracina e il bambinello di Betlemme, come scrive lo stesso Sabino. Tuttavia Moro e Sabino sono anche il senex, impersonano il puer e il senex, due archetipi che Jung e Hillman hanno considerato due possibilità psichiche dell’integrazione e del processo d’individuazione. Come stiano insieme, Gesù, Giove, Moro e Sabino non importa saperlo con la mente, solo bisogna leggere e immedesimarsi nel flusso delle fabulae; occorre percepire sinestesicamente il molteplice che confluisce in questo “gliuommero”, che meriterebbe un Ciccio Ingravallo della critica letteraria per poterlo del tutto dipanare. Il secondo dono comporta - per dirla con Serra e con Carducci - “Oltre il dono di fare la divina poesia, quella di saperla ammirare fino alle lacrime”. Questo il senso del titolo: una poetica e una poesia che sono una sola cosa nell’opporsi non solo ad una critica astrattamente filosofica, come quella crociana, ma anche nel proporre un poiein di gusto e immedesimazione. Il primo componimento della plaquette è un quasi sonetto, perché le rime delle due quartine non si riproducono, ma è testo comunque in endecasillabi rimati; il secondo componimento è più lontano dal sonetto canonico. Sabino adotta in avvio la forma chiusa, quasi a rivendicare dinanzi ai suoi critici la capacità di scrivere in versi da esperto. C’è una questione di tecnica e stile, che non è mero “rappel à l’ordre”, estrinseco richiamo al “canone occidentale”, per dirla con Bloom. C’è con un’assunzione di vincoli strutturali e ritmici l’intento di porre alcuni argini formali della frantumazione rischiati dal desiderante, il quale nella sua irrefrenabile deriva esprime la pulsione opposta di reintegrazione dell’io in un moto panico, verso ciò che Freud chiamava il “sentimento oceanico”, desiderio di immergersi nella Totalità come nelle acque intrauterine, o nello schlegeliano “Streben nach dem Unbedigten” ( “la tensione verso l’Assoluto”), il divino immanente/trascendente. D’altra parte “desiderio” viene da de-sideribus; ci si misura con le stelle, sia che l’oggetto del nostos venga identificato nella Bellezza in sé, sia che lo si intenda come “Sommo Bene”. Per Platone kalos e agathos sono la stessa cosa se pensati fino in fondo, cioè come sostanze (ousiae) ideali e come tali, essendo immateriali, penetrano gli enti terreni fino al sensibile (metessi) e li orientano al trascendimento. La poesia di Caronia esprime l’impossibilità di conseguire una relazione di fusione totalizzante con l’oggetto d’amore - questa o quella donna sono maschere dell’eterno femminino - ed è evidente che non è possibile un regressus ad uterum o un mero ritorno all’Eden. Anche la “parola innamorata”, fatta propria da Sabino - non intendiamo quella della famosa antologia  La parola innamorata, a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro, Feltrinelli 1978 - è proprio il modello di poesia che si è imposto con Petrarca. Petrarca aveva teorizzato il dissidio tra l’amore terreno e l’amore divino; così anche la parola poetica nell’umano, che contribuisce nella paideia all’autoperfezionamento umano, persegue il télos connaturato alla morphé, al progetto strutturale insito nell’“essere dell’ente”. Il conseguimento dell’entelecheia aristotelico/tomista appariva però, già in Petrarca, sempre minacciato di fallimento, per la sproporzione tra immanenza e trascendenza. Anche Don Giovanni, simbolo per antonomasia dell’esteta, nel moderno, è un idolatra che non sa di esserlo: vive nei suoi adulteri l’adulterio ontologico di cui parlano i profeti biblici, perché ama di più la bellezza della creatura che la Bellezza del Creatore. Tema questo che conduce al “dissidio” di cui Petrarca si era appropriato attraverso il suo dialogo incessante con Agostino, nel Secretum. La tradizione, quindi, ha già nel Rerum vulgarium fragmenta del Canzoniere petrarchesco, un nobile antecedente proprio nella consapevolezza dei rischi connessi a tale “dissidio”, che può produrre la frantumazione interiore del soggetto e quindi del linguaggio tout court. L’adesione senza pentimento al petrarchismo la ritrovo in questa raccolta di Caronia, in particolare nell’adozione del modulo che corrisponde all’ideale d’armonia formale che prima era greco-latino, poi cristiano, quindi umanistico, che nel moderno, laicamente mutato di segno, è stato via depotenziato, perché desacralizzato. Tutta la poesia moderna, non solo d’amore, a partire dai Fragmenta petrarcheschi, tende a porsi, consapevolmente o inconsapevolmente, da una parte, con il classicismo, come argine all’angoscia di frantumazione, che è anche l’angoscia di essere non amati, perché il desiderio è assoluto e il dissidio è ontologico, non psicologico, dall’altra adottando già la struttura del frammento il linguaggio evidenzia la dissoluzione dell’io, la difficoltà di esprimere l’amore e il dolore, propri del moderno. Caronia sembra aggrapparsi, almeno in questa raccolta, all’armonia, ai metri, alla misura dei versi, per arginare il suo desiderio tendenzialmente rovinoso, e non gli importano più i prestiti, gli innesti di testi che gli servono per costruire la diga. L’armonia è perseguita in letteratura, anche in poesia, come armatura, direbbe la psicoanalisi. Perciò quell’irenico ritornare alle origini, alle “chiare fresche dolci acque”, acque intrauterine in questo caso, al rapporto melos-senso dei greci, all’infanzia, potrebbe avere senso drammatico di rimozione. … Ma si guarda indietro anche per poter guardare avanti, per rinascere: “Ritornare da te fanciullo eterno/ che siedi sopra il monte a Terracina/ e come Orfeo disceso nell’inferno/ rinascere in un’ansia di mattina”. Qui s’innesta la dialettica tra il motivo orfico del descesus ad inferos – anche nei richiami alla IV egloga delle Georgiche virgiliane - e la levitas, come ascesa al sublime di un’arte, di una poesia, in cui il motivo orfico è recuperato per la palingenesi, la rigenerazione di tutte le cose. Ciò ci riporta alla penultima poesia, Senza più peso, del secondo libro di Ungaretti, in Se questo è un uomo - “Per un Iddio che rida come un bimbo, /Tanti gridi di passeri, / Tante danze nei rami/…”- . Emerico Giachery osserva giustamente che qui “Un bimbo riattiva la condizione edenica”.

In Caronia, il bimbo - direi - è un senex ridiventato bambino, quindi un puer aeternus. Occorre evangelicamente ritornare “come bambini”, farsi “puri come le colombe e astuti come i serpenti” per entrare oltre che nel regno di Dio in quello di una poesia che vuol essere (in uno) antica e moderna, operare la conjunctio oppositorum.

Laura Canciani su Il secondo dono di Sabino Caronia

Sempre ho avvertito in Sabino Caronia, filosofo, saggista, critico, commentatore raffinatissimo, anzitutto il poeta. Ora, all'improvviso, con timidezza combattuta, affiora una sua raccolta di poesie dal titolo enigmante "Il secondo dono" (quale dono tra gli infiniti elargitigli dall'Essere supremo?). Penso che i suoi versi siano nati, a poco a poco negli anni, quale tenuta rispetto a tutto ciò che, al fondamento, risulta momentaneo e provvisorio. Mi sembra di cogliere inoltre che la poesia di Caronia poggi costantemente più sull'autonomia del significante, sull'incisione, sulla concentrazione dolente di fiotti della vita psichica e avvolgente, ma passeggera: «Due suole a terra misurare alterne / L'indugio breve d'una sigaretta. / Veramente la vita è fiamma vinta.»
Il suo «privato» giornaliero diviene il «grandioso», l'evento significativo che ritroviamo in Saba, in Caproni, Sereni, Montale, Luzi... Sabino Caronia vuole continuare a scoprire il senso, l'idea, il solido della materia da ricondurre alla solidità, al vecchio, all'antico, all'eterno, per giungere, pur nell'inconscio, al classico. Significativa risulta la bellissima poesia «Fuente vaqueros»:

Deserta Andalusia che il cuore pungi
Come pensiero di donna lontana,
Io lo so che non più di cavalieri
Erranti è tempo e di perduti amori,
Perciò fuggo le lunghe strade rosse
Che vanno dritte verso nessun dove
E tengo chiusa la porta di casa
Di fronte all'invadenza delle stelle.

È necessario tornare ai classici? Tendere ad un linguaggio che diventi una «spinta in alto»? I presagi (e i messaggi) scaturiscono dalla discrezione, dai silenzi lunghi, da profondissima tristezza controllata; la melancolia che trascorre in questi versi deriva dalla certezza della tradizione che si è allontanata, che il poeta di Terracina vuole richiamare. Non è possibile infine tacere la presenza aurea di Federico Garcia Lorca come riconosciuto da Dante Maffìa.
La memoria ritorna «come lampada che non elimina la notte, il buio, ma permette di attraversarli».

Laura Canciani



Marzia Spinelli su Il secondo dono di Sabino Caronia

Al telefono
Al telefono, durante una delle tante conversazioni in cui ci avventuriamo, lui da casa ed io in ufficio, Sabino mi racconta un sacco di cose, alternando letteratura, aneddoti, amicizie e quotidianità; io soprattutto ascolto e la conversazione è piacevole, un po’ surreale,  ma sentita. Tra una citazione e un fatto quotidiano o familiare a un certo punto con guizzo improvviso Sabino dice qualcosa di spiazzante, come ad esempio :“ma sai, la poesia non è la realtà ….”. Resto un po’ perplessa senza aggiungere altro. Più tardi, riflettendo e rileggendo il suo libro,  mi verrebbe da aggiungere:
“perché la poesia è un’altra cosa”. Cosa poi sia è impresa ardua spiegarlo …
Ma penso che il libro di Sabino voglia dirci in parte, se non del tutto, proprio questo.
Certo, nel Secondo dono c’è il suo viaggio dell’anima, personale e intimo, ci sono nostalgie, emozioni, c’è l’infanzia e l’adolescente che rende omaggio a Giove Anxur sull’altura di Terracina: forse il suo specchio di Narciso o l’utero materno ove tornare e annegare e trovare unicità e unitarietà dell’essere. Ci sono inoltre molte figure che aleggiano, femminili e non, ci sono perdite, dolori: l’esigenza, la necessità di tirar fuori l’anima nascosta, segreta e segrete cose …  ma, come Sabino stesso dice, tutto concorre ad essere pretesto per dire qualcos’altro; quel dire della poesia che non è quel che sembra. Dirne anche l’ ambiguità: chi sono questi tanti TU cui si rivolge?e quegli occhi verdi onnipresenti a chi appartengono? La poesia cui Sabino si rivolge prende varie sembianze, concrete perché la poesia lo è, e al tempo stesso ineffabili, ma parte di un tutto nella loro molteplicità: tanti in uno, come tante stanze del mondo da guardare e stanze della poesia nel riattraversamento della tradizione(praticamente tutta), tanto amata e studiata, conosciuta in ogni suo segreto e in ogni sua luce/ombra. C’è dunque la Poesia e il parlare di e con  la Poesia, che è sogno, Bella addormentata da risvegliare, o lasciarla là, nella sua fiaba, per non contaminarla, non sporcarla, rileggerla sì in tanti modi e  solo così farla propria.
Il poeta, l’uomo, se ne va, “inquieto, senza meta … ubriaco di sogni, di speranze, di cielo, come un santo … come umile francescano, in una stanza dentro al tuo cuore, povera, niente lusso, ma pulita..”come la parola che ci dona.
Vorrei aggiungere quel che non  non ho detto ieri sera, perché mi è sfuggito: queste conversazioni sono una  sorta di “interferenza”, in senso creativo, oserei direi montaliana, (tutti ricordano la famosa poesia con la quale l’Autore voleva unicamente rendere omaggio alla Poesia); sono una forma di energia che attraversa il filo del telefono -  (non la mail o  un sms ! ),  un modo quasi desueto ormai, ma assolutamente creativo di interagire con la realtà, che è faticosa, contorta e stremante, cui aggiungere un guizzo, una ribellione, un piccolo incendio alla mediocrità e alle contraddizioni tra le quali ci tocca vivere.  In fondo forse è questo il fine del poeta e di questo sono molto grata a Sabino e alla sua Poesia.

Con affetto e stima
Marzia Spinelli 

19 febbraio 2013

Tommaso Debenedetti su Il secondo dono di Sabino Caronia

Se si dovesse racchiudere in una definizione il lavoro poetico di Sabino Caronia, si dovrebbe parlare di poesia della luce. Luce in tutte le sue tonalità, da quelle abbaglianti, così forti da sconfinare nell'opposto, a quelle più limpide, distese, alternate di penombre. Luce di paesaggi, di stagioni- l'estate in primis, il tempo fermo dei densi climi di cardarelliana memoria- ma anche luce sconfinata ed extratemporale dell'Anima che ritrova la sua fonte, il mistico abbraccio di una Divinità che è, per eccellenza, materna e donatrice. Scorrendo le pagine di questa bellissima raccolta, dal titolo non casuale "Un secondo dono", il lettore può scorgere, condensati e ricreati in una musica tenue e struggente, dall'inclinazione appena malinconica, tutti gli aspetti e i caratteri del Caronia critico (quello dell'"Usignolo di Orfeo" e del "Gelsomino d'Arabia", e di tanti memorabili scritti) e del Caronia narratore (quello de "L'ultima Estate" ma pure quello, splendidamente evocativo del racconto la Cupa e l'acqua chiara o dell'esemplare racconto sulle luci della festa ebraica di Khannukà viste attraverso gli occhi di Kafka). Si direbbe che il Caronia poeta e il Caronia saggista e scrittore si corrispondano in modo perfetto, fornendo l'uno all'altro climi, motivi, spunti, suggestioni. Per accorgersi di questa straordinaria osmosi, basti un'occhiata alle liriche di "Un secondo dono". Il "Giove Anxur" protagonista di tante pagine narrative di Caronia, viene evocato, nell'omonima poesia, come "paradiso perduto ove tornare vorrei per sempre a rivedere il Sole". Luce naturale che diviene luce metafisica, evocazione di un principio divino dall'aspetto interamente materno: "acqua materna ove è dolce annegare, cancellare il molteplice nell'uno". Nei versi di "In spirito e corpo" un paesaggio marino, quello di Gela, offre a Caronia l'occasione per dire:"rapirei la luce della tua gioia al sole per vincere anche il buio della notte più nera". Luce e buio, dunque. E il buio, nella notte dell'Andalusia cantata in "Fuente Vaqueros", si inonda di luci: "tengo chiusa la porta di fronte all'invadenza delle stelle". E' forse superfluo ricordare quanta importanza il rapporto luce-buio abbia nella critica di Caronia, per esempio nelòle pagine dedicate a Italo Alighiero Chiusano, a Cardarelli, a Sciascia, a Pomilio. Anche i gesti, le parole, gli affetti, vissuti nel ricordo, si fondono in visioni di luce: come avviene in "Il sole del mattino" e in "Non ho dimenticato": "Non ho dimenticato quel pienissimo sole, quel mare di smeraldo, quel morto paradiso". E ancora, struggente, soffocato grido che diviene canto: "Chi mi consola ormai dei soli spenti?". In "Ogni terzo pensiero" il rapporto luce-buio tocca il suo apice: "Lanterna nella notte/la tua piccola mano/mi fa luce nel buio/illumina il sentiero./Luce di luce vera/tu mi porti per mano". luce mistica nel buio, luce affettiva che accompagna, luce nel tempo e oltre il tempo, luce e buio dell'universo prenatale su cui, da sempre, converge l'originalissima indagine critica di Caronia. In questi versi, oltre a trasformare in poesia la sua intuizione di saggista e anche di scrittore (ricordiamo il Moro, narrato da Caronia,  da statista divenuto semplice uomo dell'ultima lettera dalla prigione : "Se ci fosse Luce sarebbe bellissimo"), l'autore ci conduce nel centro della sua percezione della Luce extratemporale della Fede, una Fede che, come fremito sotteso e discreto, impregna tutte le pagine della raccolta. Fede- ripetiamo- che è anzitutto percezione di una Luce nel buio, di una Mano che accompagna, di un universo fermo e sereno da cui si è partiti, nell'alba prenatale della vita, e a cui si torna. (E qui sarebbe doveroso citare un altro poeta della luce, e degli infiniti chiaroscuri dell'esistenza, per lunghi anni amico di Caronia, Elio Fiore). Proprio attraverso il senso della luce, Caronia evoca anche l'opposto: l'oscurità delle notti dell'anima, le delusioni , gli smarrimenti. Come la luce negata del cielo di Parigi: "La luna di Parigi non è più la mia Luna", o come il brivido che accompagna il ritmo della pesia conclusiva, quasi in misteriosa corrispondenza con certi toni del romanzo-saggio di Caronia su Jim Morrison: "E così me ne vado in  giro per le strade sotto più chiare stelle dentro il buio più nero ubriaco di sogni, di speranze e di cielo". E' difficile, davvero difficile, l'osmosi fra l'indagine critica e i ritmi della poesia. L'autore di "Un secondo dono" non solo è riuscito a darci un raro esempio di tale fusione, ma ha fatto molto di più. Ha intonato un canto delicato, limpido e tenerissimo, dell'esistenza e del suo continuo, incessante, mistico dialogo con la Luce.


Tommaso Debenedetti

Luciana Vasile su Il secondo dono di Sabino Caronia

Potrebbe creare una certa difficoltà intervenire dopo le dottissime introduzioni alla silloge di Sabino Caronia: siamo di fronte al filosofo e poeta Luigi Celi e al critico saggista poeta Giorgio Linguaglossa che entrano con competenza nei versi e fra i versi, sono i classici addetti ai lavori. Con Luigi Celi sempre mi trovo d’accordo e anche questa volta non posso che complimentarmi con lui per  l’attenta e accuratissima disamina del testo. A Giorgio Linguaglossa, con il rischio - temo - di essere picchiata, dico che la recensione di “Il secondo dono” nel recente n.54 della rivista “I Fiori del Male”, e ovviamente insieme alle sue parole di oggi che fanno ad essa riferimento, per me è la cosa più bella che di lui abbia letto ed ascoltato. Vi chiederete perché questa istintiva improvvisa odierna passione, quando è risaputo che Giorgio Linguaglossa produce cose dottissime. Perché lui qui ha scritto con il cuore, almeno per un 80%, lasciando solo il resto alla ragione. L’intelletto può regalare cose interessantissime, non discuto, ma a volte la ricerca di un linguaggio complesso e complicato che scivola nel criptico, potrebbe allontanare, come in questo caso, da una poesia invece diretta, che trafigge facendosi  forte del “conosciuto”. Quindi, da lettrice, sono grata a Linguaglossa per come sia riuscito ad illuminare in modo semplice e vero i versi di Sabino Caronia, appunto attingendo dal cuore. E’ ciò che merita questa raccolta, fatta di alta preziosa semplicità, mai ovvia e banale.E’ stata, qui oggi, ribadita più volte la scelta della scrittura di Sabino Caronia, cioè quella di mettere a disposizione del lettore la sua profonda cultura. Con citazioni e rimandi da lui interpretati,  sempre si fa rappresentare da altri, altri poeti in questo caso. Del resto Sabino è stato per tanti anni professore di italiano e latino nei licei, dove ha trasmesso cultura e istruzione alle nuove generazioni – anche io, a dir il vero, quando lo leggo mi sento alunna, molto imparo della letteratura -. E poi non dimentichiamo che è un acuto critico che è abituato a parlare di Altri, anzi ama parlare degli Altri, piuttosto che di se stesso. Il presente di qualsiasi essere umano presuppone il suo passato, quello costruito con la propria storia. Questa potrebbe essere la spiegazione nel mondo del reale, della mera cronaca, senza voler qui approfondire una ricerca più sottile e più delicata nell’interiorità di Caronia che, in altra occasione, mi sono permessa di analizzare o per lo meno di suggerire. Riflessioni sempre del tutto personali  di una lettricearchitetto che, per deformazione professionale e impostazione di metodo, va alla ricerca del progetto e della conseguente sua edificazione. Ma qui, invece, vorrei brevemente accennare come, nel suo irrinunciabile modo di affrontare la scrittura per comunicare, io trovi una profonda differenza fra la sua prosa e la sua poesia. Mentre nella prosa le continue citazioni (nel libro dedicato a Jim Morrison, ad esempio, occupano buona parte del testo) spezzano la narrazione impegnando il lettore su due fronti : l’uno occupato da Sabino Caronia e il secondo da altro scrittore o altro personaggio che interviene nel testo con parole che appaiono slegate perché estrapolate da altri contesti, nella poesia, invece, questo avviene in modo lineare e senza disturbo, anzi è gradevolissimo, completa senza contrapporsi. La poesia stessa si presta meglio a questa operazione perché è fatta di parole che traducono solo flash, di immagini o di stati d’animo. Personalmente sono quindi  grata che Sabino faccia rivivere alcuni autori (come ad esempio Giorgio Caproni, che è fra i miei preferiti) nel regalo di loro versi famosi , e che prende come spunto, per poi mirabilmente svilupparli e farli propri con musicalità, ritmo, armonia. Mi spinge a studiare, ad approfondire. Ecco, che sia proprio questo “Il secondo dono”, questa seconda opportunità che Caronia ci dà di godere ancora di versi che rappresentano la poesia lirica del novecento così piena di suggestioni?
Ultima osservazione è che nella poesia, diversamente dalla prosa, non ci si può nascondere. Quindi Sabino Caronia viene fuori in tutta la sua autenticità, con i  dubbi e le lacerazioni di colui che con la sua fatica di vivere cerca di costruire un senso, una direzione. La prima parte di “Il secondo dono” la trovo più bella e incisiva con le liriche: A Giove Anxun, Innamorati, Come gemma d’anello, Ogni terzo pensiero, Sotto diverso cielo.
Ma, per me, la gemma della raccolta è La stanza, che non può passare inosservata ad un architetto alla quale, quando legge e scrive, piace abitare l’anima.
Concludo proprio con questa  poesia: La stanzaAltra cosa non chiedo dalla vita/che una stanza per me dentro al tuo cuore,/povera, niente lusso, ma pulita,/poco spazio mi basta e poco amore./ Un oceano di stanze interminato/ è l’immenso palazzo del tuo cuore,/non lasciarmi di fuori col passato,/non chiudere la porta al mio dolore.

                                                                                       Luciana Vasile 13 maggio 2013

La melanconia della rima in Sabino Caronia di Giorgio Linguaglossa

Sabino Caronia Il secondo dono Progetto Cultura, Roma, 2012

Recensione pubblicata sul n. 54 della rivista i Fiori del Male diretta da Antonio Coppola e sul blog Moltinpoesia il 25 giugno 2012


Il secondo dono,  così semplicemente si intitola questa plaquette di Sabino Caronia, quasi a celare un pudore inespresso o a dissimulare una ritrosia più che manifesta, quasi a chiedere venia per tanta improntitudine di apparire quale autore di un mannello di liriche. E liriche d’altri tempi, quando ancora c’erano i bambini che giocavano con l’aquilone su nel cielo e calciavano il pallone ad ogni cantone del trivio o del quadrivio. Ma oggi che l’arte della simulazione si manifesta con la singolare propaggine della scaltra dissimulazione di massa, dico, oggi, che altro dire di una lirica che si rivolge ad altra lirica del passato come ad uno sconosciuto elitario interlocutore che mai più vedrà la luce se non nel segno di un altro segno o in una cosa chiamata sogno, che forse mai più incontrerà il proprio interlocutore?
Ma la «simulazione» messa in opera da Sabino Caronia che cos’è? La simulazione del poeta di Corte? La simulazione del saltimbanco? La simulazione del carnevale? O quella del lirico intonso che fruga nel cassetto della memoria quanto sia sfuggito alla memoria? Né l’uno né gli altri, credo, ma soltanto un segno che cita un altro segno, un sogno che cita un altro sogno come un segnale di fumo che risponde ad un altro segnale di fumo, o un movimento del sopracciglio che risponde al tremore di lontanissimi sussulti delle foglie di un bosco lontano. Sì, dalla nostra epoca dell’oblio tutto il passato appare lontano, transeunte (o forse lo è davvero), tutto ci invita a cogliere l’attimo, come quando Adamo si convinse che fosse giunto il momento di addentare la famigerata mela. E così, Sabino Caronia si è deciso ad addentarla la mela, si è deciso a lanciare nel vento queste esili liriche nell’epoca che ha visto tramontare, e forse per sempre, la grande lirica del Novecento, lanciarle con la riluttanza e l’incredulità con cui oggi i bambini trattano gli aquiloni.
Giacché invano si cercherebbe in queste liriche il timbro originale, il marchio, la voce del poeta del nostro tempo, perché quella mandel'štamiana «bocca d’argilla» non può profferire, oggi, nient’altro che segni semantici di un’altra epoca poetica, quasi a volersi schermire dell’odierna. Forse, la simulazione è oggi l’unica innocua arma a disposizione del poeta per gareggiare con l’impossibilità dell’utopia, Caronia «parte dalla negazione radicale del segno come valore» ci dice Baudrillard, parte dalla reversione e messa a morte di ogni referente. È l’edificio della «rappresentazione» che qui è caduto senza alcun fragore, in quanto «falsa rappresentazione». È la «simulazione» che confligge con la «rappresentazione». La citazione diventa simulazione, e viceversa. Simulazione della poesia che avvolge l’«edificio della poesia» con una cortina di sottilissima nebbia, con aure e atmosfere che la distruzione dell’aura ha sancito dopo Baudelaire.
È la poesia moderna che parte dalla presa d’atto della caduta dell’aura e di ogni corona di alloro dalla fronte dei poeti. È un gioco puro, un puro gioco che si sostituisce al grande gioco di quella che fu un tempo lontano la grande poesia lirica del Novecento. E, in una certa misura, queste poesie di Caronia sono la liturgia di una tradizione scomparsa, epicedi di un lutto che portiamo al petto di una inestinguibile malinconia... e in ciò soccorre il poeta di Terracina la sagacia del verso dei crepuscolari, l’andamento da confessione, tra la filastrocca e la ballatetta, dell’io che si autoconserva mentre pronunzia la propria disparizione, tra rimandi impliciti ed espliciti alla recente tradizione tra Corazzini e Cardarelli, i preraffaelliti e i sopravvissuti poeti dell’evo moderno.
Ciò che svia il discorso poetico di Caronia dal soliloquio dell’io, ciò che lo distingue non è il suo smarrirsi tra le pieghe di una interiorità rastremata ma il suo sottrarsi alle pieghe avvolgenti e carnivore di un Hinterwelt reificato (e deificato) e posticcio che non seduce altri che gli odierni cannibali dell’interiorità rastremata e frastagliata, i falsi affittuari dei dolori dell’io, così posticci e fasulli da intimidire il lettore intelligente. Non c’è il quotidiano ma le reliquie del quotidiano. Direi che non c’è alcun paludamento in questi versi, nessun ricorso alla seduzione e all'incanto da vendere all'ingrosso, tranne la melanconia della rima che si maschera con quel poco di cerone che le rimane.   









lunedì 24 giugno 2013

Rita Pacilio su Nelle tue stanze di Marzia Spinelli



Recensione pubblicata a dicembre 2012 sul blog di Rita Pacilio


Le immagini poetiche racchiuse nell'eleganza del verso utilizzato da Marzia Spinelli Nelle tue stanze, plaquette per Le Gemme di Progetto Cultura, a cura di Cinzia Marulli, penetrano i sentimenti oltre il visibile, il condivisibile. Al lettore/interlocutore viene affidato, abilmente, il senso compiuto di un itinerario emozionale e personale dell’assenza. La mancanza di un membro familiare e l’elaborazione dell’abbandono mediano, in poesia, l’accumularsi di diversi piani di ammonimento, analisi, scrupolosa considerazione del compiersi. Le regole retoriche del linguaggio si rassegnano di fronte all'ammasso di numerose voci invisibili e mai smarrite, vissute come tracce plausibili in continua osmós, "spinta, impulso’, per discernere l’atto della vita dal pensiero della morte. L’elegia del significato non ricade nella storia malinconica dell’esperienza personale vissuta dall'autrice, ma si veste di universalità narrante, trascrivendo le cose intorno a sé e dentro di sé come lettura filosofica del simbolo urgente e compagno di viaggio. Spinelli supera le distanze infinite comuni all'umanità, non si smarrisce di fronte alla Madre che vive luoghi e stanze colme di essenza e di verità: si colloca, invece, nell'equilibrio del pensiero del corpo dilatato (Josè Lezama Lima, Eugenio Barba) con la consapevolezza della figlia matura, che rinuncia, che comprende, che riconosce il ciclo vitale e lo accoglie. Gli ambienti sono i punti di partenza e di arrivo: il lettore viene coinvolto nella compassione attiva, un sentimento che in Oriente significa pregnanza empatica, che condivide, dunque simpatetico. I passi dolorosi del lutto traducono altre dimensioni e l’autrice sa contenerli in versi che non sfuggono alla bontà della poesia contemporanea. La celebrazione temporale e fisica del distacco rispetta la ricerca della continua protezione del sé spirituale/intimo per sottolinearne la presenza nel tempo di una memoria che presuppone il contatto con la vita. Non si frantuma il senso del dentro, né quello del fuori. Nelle tue stanze domina con maestria l’eterno esoterico, enigmatico rapporto corpo/anima a cui tende l’universo intero.

Cinzia Marulli Ramadori - Tra la memoria e il tempo - lettura della raccolta poetica Nelle tue stanze di Marzia Spinelli

Recensione pubblicata il 1° maggio 2013 su Escamontage


Nelle tue stanze di Marzia Spinelli edito dalla casa editrice Progetto Cultura nella collezione di quaderni di poesia Le gemme - da me curati - segue di tre anni la prima raccolta poetica Fare e disfare della Spinelli; si distingue da quest’ultima per la tematica  mentre se ne avvicina per lo stile conciso e personalissimo dell’autrice.
E’ dunque il naturale seguito di una voce poetica che si sta sempre più inserendo come voce importante e significativa della poesia contemporanea.
Con Nelle tue stanze la Spinelli ci fa un dono particolare: una raccolta poetica tutta incentrata sulla memoria della madre. Una rarità da un punto di vista letterario considerato che il tema della madre è stato ampiamente trattato in letteratura, ma quasi esclusivamente da autori uomini con, ovviamente, la prospettiva maschile del ruolo materno; ricordiamo, solo per citare qualche autore: Umberto Saba con Preghiera alla madre, Giuseppe Ungaretti con La madre, Salvatore Quasimodo  con Lettera alla madre, Eugenio Montale con A mia madre, Giorgio Caproni con Preghiera, Pier Paolo Pasolini con la sua famosissima Supplica alla madre, da ultimissimo Elio Pecora con il suo poemetto Nel tempo della madre; in tutti questi versi la madre è sì una figura reale, concreta (a differenza di quello che invece succedeva nella classicità dove la madre era una figura esemplata su un modello universale), ma pur sempre ritenuta un essere perfetto, sublimato. Unica eccezione è Elio Pecora con il suo poemetto Nel tempo della madre, dove troviamo l’umanissima madre Elena; in campo femminile mi viene in mente la madre Isuzza della Morante, ma anche qui si tratta di un personaggio di un romanzo (La Storia) e non della madre dell’autrice.
La Spinelli invece dedica questa raccolta a Lina, la madre persa da poco tempo, ne fa una descrizione emozionale ricorrendo alla memoria.
Profondamente significativo è il titolo stesso dell’opera: la stanza come ha ben detto Sabino Caronia in una nota critica all’opera della Spinelli ci ricorda Giovanni Cristini e la sua epigrafe borgesiana messa a premessa del poemetto che s’intitola proprio La stanza: tutta la storia dell’umanità può essere scritta sulle pareti bianche di una stanza.
Quindi il titolo ci conduce attraverso un luogo del ricordo; è Marzia stessa che ci apre la porta della sua memoria per farci entrare in luoghi intrisi di storia; ma qui non troviamo solo la madre Lina, c’è anche quello che Lina ha lasciato, c’è sua figlia, le sue nipoti.
La storia di una famiglia diviene la storia di tutte le famiglie perché non ci sono archetipi, figure ideali o idealizzate. C’è la vita, la concretezza del reale e la trasmissione del sentimento della perdita. La figura della madre vista dagli occhi della figlia, che è madre a sua volta, perde quella freddezza dello stereotipo e diviene carne, passione, amore.
La madre di “Negozio di pietre” è l’identificazione della propria madre nella figura di un’altra madre incontrata per caso: ed è una figura umanissima; basti leggere i versi ha capelli come i tuoi questa invisibile piccola statua.
Ma in questa poesia si ravvisa anche una sorta di finalità dell’autrice, un messaggio che invia a tutti coloro che hanno ancora a che fare con i propri genitori, vecchi malati, a volte difficilmente trattabili nella quotidianità della vita. Ci lancia questo messaggio proprio mettendo in evidenza l’indifferenza della figlia nei confronti della madre e dicendo: alla figlia padrona che annuncia i saldi/volevo dare un segnale,/ma solo per me la coincidenza, la pena, le pietre da sgranare/.
Si può dire che in questo libro il protagonista, o meglio i protagonisti sono le sensazioni, le emozioni lasciate dalla memoria; esso sembra nascere da un’urgenza dell’anima, come risposta al vuoto della perdita, ma anche come desiderio di dire ancora alla propria madre tutte quelle cose che non si è fatto in tempo a dire. E proprio il Tempo con la T maiuscola ricorre quasi in modo ossessivo nei versi della poetessa: già nella prima poesia troviamo
 ... mi nascondo al Tempo/, nella quarta c’è e decifrare insieme il battito del Tempo, nella quattordicesima ... Ora so che è semina il Tempo, nella quindicesima come non ci fosse stato avviso/e mai in bilico il Tempo, nell’ultima appare addirittura due volte: nel gelo del Tempo e Il Tempo di passa sopra.
Il Tempo dunque come persona-personaggio che trascina con sé la vita, la memoria, le opportunità. La dimensione spazio-temporale dei versi dell’undicesima: l’ultima stanza è l’ultimo giorno,/ il più lungo poi ti portano via.
E’, questo libro della Spinelli, una vera gemma, un dono dell’autrice che arricchisce la poesia contemporanea, una voce necessaria. I posteri, ne sono certa, me ne daranno conferma.   
                                                                                                      Cinzia Marulli Ramadori
                                                                                                                                                       
 Nota dell’autore: come curatrice della collana nella quale Marzia Spinelli ha pubblicato la sua ultima raccolta poetica Nelle tue stanze, mi sono detta che probabilmente non sarebbe stato deontologico scrivere e divulgare una nota di lettura della sua raccolta; ma in me non c’è nessun doppio fine, nessun scopo pubblicitario se non l’esigenza vera di esprimere attraverso questo scritto il mio grande apprezzamento per la sua opera.
Considerato che la poesia non è mai del poeta che la scrive, ma diviene un dono all'umanità, la mia è una  gratitudine sincera che nasce dall'anima – come, del resto,  è necessario che nasca la gratitudine - nei confronti di questa poetessa così minimale e riservata eppure così grande nella sua poesia.

                                                                                 
Alcune poesie tratte dalla raccolta Nelle tue stanze


VIII
a dimenticare la voce
ci vogliono anni, mi dicono.
Parlano come sapessero
tutto dei morti. Hanno pena sincera di me,
straniera approdata.
Stesso dolore, stesso cuore pesto,
abisso che si tace, se ne parla da soli
come colloquiano i matti.

 X
le foglie rosse nella tua stanza,
inutile raccolta, insostenibile il vuoto
affacciato su questo nulla,
peggiora di giorno in giorno,
inutile l’acqua e l’aria,
le più frantumate s’insinuano agli angoli
del parquet divelto,
non avvertono, non lasciano traccia
le più leggere che volano via.

XIV
l’amo della memoria
è una corda pendula, il gancio
su un’attesa da riempire,
pestando a terra come fosse uva.

se agronomi della vita o geometri dell’aria
lo sapremo alla fine. Ora so che è semina il Tempo,
porta tutto a vendemmia, anche le stelle.

XVII
In sogno scopro felice che sei viva,
ma l’abbraccio non ha presa,
infilo gesti in un’ assenza
di attrazione,
dura finché chiedo se sono
alla vista, al tatto, di qualcosa.
Dovrei essere anche senza di te,
risponde il corpo che formicola.

XIX
solo i poeti sanno la nascita
segnata dalle stelle, la veglia di luce
su le colpe che diventano preghiere,
su quali chiodi fissi vigila
il pieno e il nuovo della luna.
Nel tempo che dormiamo c’è un arresto
o un ignoto accelerato
dalla staffetta dimenticata della morte.
XX
Siede il Novecento
su la tua schiena curva
di superstite
air bag di bombe e di rese

era cibo la Storia nel guscio
chiaro dei più limpidi ricordi 
la guerra, il matrimonio, la mia nascita
il diario comune di ragazza

nell'infinito sbando dei venti
e le tempeste
l’arco minuscolo, la parabola,
il perimetro del mio secolo.

Marzia Spinelli
da Nelle tue stanze, Ed. Progetto Cultura 2003, Collana Le Gemme, 2012





L'amo della memoria - Paolo Carlucci per Marzia Spinelli, Nelle tue stanze

Memoria come mosto di vita e di emozioni, dove il rito di passaggio è .. lutto scandagliato da gesti infilati in un’assenza/ di attrazione. Marzia Spinelli, nel suo secondo libro di versi, Nelle tue stanze, dedicato al ricordo vigoroso e struggente della madre, ritrova il sogno di restituire dall'ombra una colla d’affetti che da privati si fanno colloquiali, chiuse come urna nella tua stanza/ le nostre verità, coltivavano tutte/ spighe di grano, ciliegie che divoravi. Segreti confusi con scaglie di quotidianità,  di storia comune ed umanissima, resa pubblica nella sua forza di correlativi oggettivi in cui il Tempo si fa minuto di cose in una  fatica storica d’ amore, non a caso il cibo, la convivialità tornano frequenti nella poetica della Spinelli, abile a risolvere nel quotidiano che la fa ricca, la metafisica delle maiuscole, il Tempo, la Morte, l’Assoluto.  Sembra avere un manzoniano culto della storia, corale per organo di cose, che vibrano la Storia, la Spinelli, che  si fa regista corale e lirico di un film denso di suoni, odori e fatti, zoommati con maestria. Siede il Novecento/ su la tua schiena curva/ di superstite/ air bag di bombe e rese/ era cibo la Storia nel guscio/ chiaro dei più limpidi ricordi/ la guerra, il matrimonio, la mia nascita/ il diario comune di ragazza … l’arco minuscolo, la parabola, il perimetro del mio secolo.       Risponde alla morte un corpo che formicola,  che, di stanza in stanza, nella tana dell’infanzia mi rintraccia la memoria … è  corda pendula, il gancio  su un’attesa da riempire/ pestando a terra come fosse uva.  Nel percorso di queste stanze, dove frastorna la memoria, trova spazio anche la voce del padre che Tuona dolce/ Svegliati figlia, / tengo il tuo respiro nell’incavo della mano. Immagine bellissima in cui si dona un calore ed un’intensa forza d’amore,  di cui anche il lettore è discreto fruitore del gioco d’amorosi sensi che s’intesse nel nido fisico e storico di una famiglia nella gran vendemmia del Tempo. E davvero, strofa dopo strofa, addentrandoci in questo canzoniere minimo e sonoro di acuti lirici, ci dissetiamo al suono di luce del quotidiano, ricamato con dolcezza e  modernità espressiva, la sete di questi versi è il tuo ricordo/ bevo gocce di vitamina/ come la spremuta che offrivi …  Anche la natura si  veste di questo ventilare della storia le foglie rosse  nella tua stanza … inutile l’acqua  e l’aria/ le più frantumate s’insinuano agli angoli/ del parquet divelto,/ non avvertono, non lasciano traccia,/ le più leggere che volano via.  E nella radura dell’infanzia  piccolo l’angelo di pietra, il viaggio ai lari familiari, il cimitero  sembrava un giardino di pace/un posto dove curiosare i nomi/ dei vecchi, delle mamme,/ di altri bambini. Anche qui  il tema letterario di ascendenza pascoliana e non solo, si fa storia di un gioco d’occhi,  regalandoci lo stupore curioso tipico dei bimbi. Si ricollegano a questo filo d’infanzia le prime  stanze, in particolare la breve, ma prodigiosa rievocazione lirica del  mare e della prima raccolta di conchiglie. Capolavori assoluti sono infine, Negozio di pietre, dove il dialogo s’infittisce di oggetti che danno il senso dell’orologio del tempo e degli affetti, e di echi di voci contemporanee rese poetiche - guarda la figlia darmi il bancomat- digito il pin con dita d’onice- l’occasione commerciale dei saldi è viatico prezioso che gemma ricordi in un qualunque mattino caldo / d’anniversario. Fortissimo, in conclusione, il “testamento” della stanza XI, ove in maniera epigrafica risuona l’acerbità indicibile di un distacco, reso senza retorica, intimo e vero, anche  nell'equilibrio dei termini : L’ultima stanza è l’ultimo giorno, /il più lungo,  poi ti portano via.          

Marzia Spinelli e l'amo della memoria di Sabino Caronìa

Pubblicato nel numero di Aprile 2013 di Studi Cattolici, mensile di studi e attualità diretto da Cesare Cavalleri

Rispetto a tanta poesia odierna che è puro gioco, finzione fondata sul nulla, pura mimesi di un vuoto senza fondo, Nelle tue stanze (Progetto Cultura, Roma 2012), ultima raccolta poetica di Marzia Spinelli, propone versi che riecheggiano una controllata eppure accorata sofferenza, una sincera nostalgia, un’innocente aspirazione ad una condizione umana non degradata.
La linearità del linguaggio, immune da cadute, è al servizio di una consapevolezza esistenziale che non teme di affrontare con sicurezza la realtà. La speranza, per la poetessa, si fonda su un’istanza etica profonda, quella stessa oggi così trascurata, così temuta, si direbbe, ma l’unica vera, la stessa  di cui è espressione il componimento che intitola la raccolta «sempre sarà il suono / nelle tue stanze / e la tua voce» (p. 30).
Vien fatto di pensare a Giovanni Cristini, all'epigrafe borgesiana premessa al suo ultimo poemetto La stanza («Tutta la storia dell’umanità può essere scritta sulle pareti bianche di una stanza») o, ancor prima, alle parole poste a commento di un precedente componimento, La luna sul Tuckett: «Anche i poeti, dici, sono dei visionari, quasi quanto i filosofi. E gli uni e gli altri si affacciano a questa finestra sul mondo da una stanza “che brucia e non si illumina”. E forse attendono la frana, il crollo».
Dunque, dicevamo, Borges e la memoria.
Ma anche Kafka.
Non a caso, forse, dal momento che la poetessa lavora come già Kafka alla direzione generale dell’INAIL.
In proposito leggiamo: «L’amo della memoria / è una corda pendula, il gancio / su un’attesa da riempire, / pestando a terra come fosse uva. // se agronomi della vita o geometri dell’aria / lo sapremo alla fine. Ora so che è semina il Tempo, / porta tutto a vendemmia, anche le stelle».
Si pensa al kafkiano Castello, alla figura dell’agrimensore, di quell'individuo d’eccezione che ne è il protagonista (landvermesser in tedesco significa appunto agrimensore, geometra, ma anche tipografo), alla sua fiduciosa speranza di riconciliazione con l’assoluto, lo streben, la tensione perenne dell’anima, alla sua condizione di straniero in un paese così tetro, al contrasto tra la sua vocazione artistica e la professione, l’ufficialità e l’ufficiosità dell’assunzione.
L’autentico, come sempre, è la matrice della poesia, anche di quest’ultima raccolta poetica di Marzia Spinelli.



Laura Ranieri su Nelle tue stanze di Marzia Spinelli

Recensione pubblicata il 23 maggio2013 sul blog ViadelleBelleDonne


Quest’opera assolutamente unitaria, si sviluppa in XXIV composizioni, cui si aggiunge una breve poesia iniziale in corsivo, dopo le citazioni di versi di autori che parlano della madre, e un’altra finale sempre in corsivo che fanno da cornice al poemetto e ne riassumono il significato.
La morte della madre è, a vedere bene, la nota dolente ( la più dolente per una figlia ) che sprigiona nella figlia scrittrice versi sofisticati quanto naturali, dove esprime la propria maturazione di pensiero e di affetto fino a quel punto del suo vivere.
Come se si sprigionasse dalla morta madre ancora un travaso di energie alla figlia. O come se la scrittura potesse creare la magia di prolungare il colloquio con la madre. Ma il vero significato dell’opera sta nella riconsiderazione del Tempo ( spesso scritto con lettera maiuscola ) riguardo la morte della madre, il rapporto madre-figlia, la loro storia dentro la più vasta Storia. La capacità della Spinelli di trascendere il dolore per considerazioni più ampie, apre la poesia non solo a scenari di dolore e morte.
Il tempo dunque ( Tempo) è il vero motore e il leitmotiv di tutta l’opera.
Nella prima poesia in corsivo, l’Autrice dice che “si nasconde al Tempo” e che nella stanza vuota della madre “mi rintraccia la memoria”. Nell'ultima poesia sempre in corsivo si parla del Tempo tiranno, egoista, che vola e sorvola su tutto senza mai piegarsi a una commozione pur di mantenere la durata. Unico scopo del tempo è dunque “durare”. Ma forse c’è qualcosa che lo piega, anche per poco: il dolore e l’amore umano, gli unici due sentimenti che possono inchiodare il tempo. Fermarlo per un poco. Porre l’uomo di fronte alla nudità di se stesso: come dice filosoficamente Cioran nel suo libro da meditare: “La caduta e il tempo”.
E’lì che nasce l’eterna domanda, attribuita poeticamente al Tempo, con spostamento di soggetto, : “chiede chi siamo/ perchè poi infine ce ne andiamo”.
All’interno di questo assunto o di queste domande si snodano le altre poesie con variazioni sui ricordi e sul dolore, sul paese natìo della madre, sulla relazione con la madre stessa.
L’opera è tanto più rilevante perchè, come si diceva, la Spinelli, pur invasa da un dolore senza uguali, riesce ad inserire la vicenda in una storia, in un ambiente, nel tempo presente, e nel Tempo.
 E per tutta la vitalità che vi percorre è in grado di suscitare emozioni, che non è cosa da poco.    Come per altri poeti e non poeti, anche se tutti razionalmente pensiamo che è naturale morire, quando la morte ci strappa le persone care, il sentimento si ribella ad ogni accettazione e implora nei sogni, nei pensieri, nei desideri, e, se è un poeta, nei versi: implora la vita.
Meglio del Foscolo nei “Sepolcri” nessuno ha considerato questo aspetto che investe come una tempesta il nostro sentimento e gli fa porre quella domanda eterna: “perchè infine ce ne andiamo”? Come se di fronte a questo nulla o a questo tutto che ci attende nella morte, fossimo assolutamente inermi e ingenui come un bambino.
Il libro di Marzia si addentra lentamente nel turbine della morte, quasi voglia prima tessere una ragnatela di memoria e di vita: la prima poesia che a mio avviso è tra le più belle “ I paesi del Metauro”, luogo evidente di provenienza della sua famiglia, ha un fascino particolare, pascoliano, dove nulla è definito ma bastano alcune pennellate di versi a ricreare l’ambiente, naturalmente non quello geografico ma quello che Lei vede oggi come poeta a distanza di tempo.
La  “notte” è citata per ben tre volte così come il termine “ombra” e “buio”. La notte dunque percorre i paesi del Metauro che l’Autrice conosce ma nel buio, che diventerà da lì a poco mortale, brilla la neve bianca e la valle aveva la sua luce. Sembra davvero un quadro impressionista. Può darsi che anche nell’aldilà per Marzia ci sia un pieno di luce. Lo si legge qua e là tra le righe.
Tra quella luce e il buio, tra la vita e la morte, quell'ambiente costituito dai paesi percorsi dal Metauro, “fu sempre specchio, filo/ d’Arianna, fune ogni oltre dove”. Il legame ombelicale con il paese rispecchia il  legame e il nodo con la madre. C’è bisogno della fisicità di luoghi e oggetti perchè il nostro pensiero torni  a far rivivere il passato, specie se appartiene alla persona cara. Il corpo e i sensi segnano la strada.
Segue un’altra poesia, la II “Altro Natale” dove l’Autrice offre pane spirituale (la poesia che va componendo) e cibo, dunque sostentamento ai suoi famigliari, condito con “una colla di affetti”. Anche la madre avrà fatto così, anzi altrove si accenna a cibi preparati e anche traslocati a casa della figlia, “una fatica storica d’amore” in segno di aiuto e di affetto. Il giorno dopo quel cibo era un amore sbriciolato, cioè consumato, tanto stretto il nastro che lo tiene legato che bisogna tagliarlo. “Amore sbriciolato” offerto a tutti. “Nodo stretto” che ogni figlia deve tagliare con dolore per una propria auto identificazione. L’idea dunque che si riceve è che, nonostante la ferita, il collante dell’affetto vinca, lo stesso che la madre nutriva per i figli, ora viene travasato come da vaso a vaso dalla propria figlia nella nuova famiglia. La vita dunque ha il sopravvento e il Tempo che uccide qui subisce uno scacco.
Ecco dunque addentrarci nel cuore del libro: la morte. E qui, come si legge in quasi tutte le raccolte poetiche femminili dedicate a un buon rapporto con la propria madre, anche se mai privo di qualche nube, vi sono, sia pure in sordina, decifrati tutti i sentimenti che in quel tragico momento una figlia può provare.
Vi è anche l’altra letteratura femminile che canta una madre terribile ed assente, di cui la poesia più espressiva e radicale fa capo ad Anne Sexton: la perduta eredità della figlia Anne, il mancato passaggio delle consegne da donna a donna con sua madre Mary Gray (Anne giocherà sarcasticamente sul nome “Maria”) era la causa principale del suo malessere esistenziale, della negazione del suo corpo, e della incompiuta sua identità.
Ma qui si tratta di una buona relazione e la mancanza della madre provoca un totale senso di orfanezza, come nuotare in un nulla e in una nebbia che pare senza ritorno. Come subire il più forte sradicamento o perdere una metà di se stessi. “Insostenibile il vuoto/affacciato su questo nulla”.
Il taglio ultimo del cordone ombelicale. La mancanza della possibilità di colloquio. Lo scorrere del tempo che non ha più valore perchè “m’ha fermata/ alla tua ultima estate”.
La volontà infine di confondersi con la madre, per potersi identificare in lei: “E’ il volto mio o il tuo? “
La rivisitazione degli ambienti dove la madre ha vissuto, del paese dove è nata, il nominare e l’affidarsi agli oggetti cari alla madre o alle foglie rosse nella sua stanza: sembra al momento l’unica possibilità, l’unico desiderio della figlia che può dare sollievo.
Spuntano anche i sensi di colpa, che in questi casi non mancano mai: c’è sempre qualcosa di deficitario, qualcosa che la figlia poteva fare in più, e anche la madre avrebbe avuto altro da dire e “lasciarmi/ tutto compiuto e darmi pace”.
E altrove dopo un quadretto idillico adatto a una Demetra e Kore, parlando dei fiori, ecco affacciarsi il senso di colpa :”Di quelli almeno non ho mancato”.  
La naturalità e la leggerezza con cui vengono espresse queste verità in versi ben ritmati tra classicità e modernità: rendono vitale il contenuto del libro.
Poichè non farà meraviglia che la poesia femminile rivolta alla madre morta esprime quasi esattamente le stesse caratteristiche, quasi un topos, o una reazione del corpo e dell’anima uguale per tutte.
Ma sarà lo stile come in questo caso e la capacità di ovviare a un diario a captare l’interesse del lettore.
Poi il seguito poetico si stempera in altri ricordi e in altri afflati d’affetto, dove emergono, quasi altalenando con poesie più private, alcuni componimenti più astratti e di alta perfezione.
Uno è certamente la poesia XIV “ L’amo della memoria” che termina ancora con l’immagine di un  Tempo che semina “e porta tutto a vendemmia anche le stelle”. Come se l’Autrice volesse ingaggiare una competizione tra “memoria “ e “Tempo” dove si sa che quest’ultimo alla fine vincerà su tutto, dove però la memoria è l’unica possibilità umana per fermare il tempo.
Un’ altra, la più lunga del poemetto, che richiede buone capacità costruttive, é “Negozio di pietre.”
Quasi un racconto in versi, molto lunghi alcuni e prosaici, alternati con altri brevi che nell’insieme danno il ritmo. Una storia al presente tra una figlia padrona che vende pietre – sotto la cui durezza  viene sigillato il  pianto di Marzia- e che disdegna la madre, mentre l’Autrice capita ( capita?) al negozio in un mattino d’anniversario, forse l’anniversario della morte della madre. Vorrebbe dare un segnale a quella figlia che ha ancora la madre viva, ma le pietre rimangono nella loro durezza e il silenzio e la pena è solo sua.
Nasconde questa vicenda un altro senso di colpa cui ora è tardi per riparare e si vorrebbe che altri sapessero? Lasciamo in sospeso che la poesia può assumere vari significati.
Mano a mano che il corpo della madre si allontana, si affacciano nelle poesie della fine il tema della voce, il suono di quella voce che è rimasta nei timpani e che sarà l’ultima a morire, l’apparizione di sogni che le riportano invano la madre, ma soprattutto c’è l’ avvento della scrittura, di quei versi che già aveva detto di stare scrivendo nella poesia II, già citata “Altro Natale”.
Tutte strategie di cui il nostro pensiero si serve per richiamare in vita chi non c’è più.
Ma qui, come ho detto, c’è la poesia.
Il componimento XX “Siede il Novecento/su la tua schiena curva/di superstite” è un esempio bellissimo di inserzione della propria storia famigliare nella Storia, per giungere alla propria: ” La guerra, il matrimonio, la mia nascita” . Pochi versi sono in grado di offrirci un quadro pieno di vita e di storia di tutti. Qui l’utilizzo della Storia appare come un  tempo dilatato in cui ognuno di noi, come un granello minuscolo, attecchisce grazie all’amore ( o anche al caso o al disamore ) dei genitori. E da qui la vicenda umana ha inizio, per la madre, per Marzia , per ognuno di noi che nascendo siamo caduti nel tempo.

Ma, dice la nostra poetessa nella poesia XIX  “ Solo i poeti sanno la nascita/ segnata dalle stelle...”

Giorgio Linguaglossa su Nelle tue stanze di Marzia Spinelli

Recensione pubblicata sul blog moltinpoesia il 24 gennaio 2013


La sostenutezza formale di questa raccolta di Marzia Spinelli indica appunto che ci sono dei sostegni, delle travi portanti, delle mensole che tengono insieme il calcestruzzo «povero» della costruzione poetica; è indice di ciò che altrove, sul pianeta Terra, viene stimato essere cosa gradita tra interlocutori che si scambiano convenevoli, fatuità e prolegomeni. Le poesie sono un po’ i prolegomeni a una vera vita che ancora non c’è. E questa raccolta sembra quasi scritta da un poeta che non si vede (che passa tra le ombre domestiche che vengono scambiate per luce) per un mondo che non c’è, che ci parla di una estraniazione dal punto di vista di un estraneo alla vita, ci parla di un mondo che sembra essersi dileguato: l’infanzia, la memoria, la stanza vuota, l’ultima estate, le stanze abitate, disabitate.  «Nelle tue stanze» potrebbe sembrare un titolo eccessivamente generico proprio per quel suo restringere il campo semantico della significazione ad un luogo di quotidiana frequentazione. Un luogo (quello della «stanza» con tutta una serie di variazioni) con la consapevolezza che non in esso c’è il salvagente, un luogo che è diventata la soglia di una autenticità perduta, smarrita, il luogo dei luoghi, quei luoghi che oggi sono considerati luoghi turistici, moneta corrente, che passano di mano in mano al pari di una moneta, che non indicano nulla di significativo. C’è qua e là la declinazione elegiaca che appare in filigrana:

Tace il pianto
sigillato tra le pietre
dove la figlia padrona fuma e vende quarzi,
dice buon giorno come te
la madre quando arriva, una scossa della testa
è la risposta all’offerta della colazione
alla figlia che non la vuole, ora che la madre è al bar
dico alla figlia – sarebbe piaciuta a mia madre questa collana –
ma lei tace, si volta con un sospiro, ora che la madre è tornata
va a sedersi da padrona la figlia
in faccia alla madre che accende una sigaretta e dice grazie come te
nell’immobile silenzio delle pietre
guarda la figlia darmi il bancomat,
ha capelli come i tuoi questa invisibile piccola statua,
i gesti lenti e l’assenza composta,
digito il pin con le dita di onice
alla figlia padrona che annuncia saldi
volevo dare un segnale,
ma solo per me la coincidenza, la pena, le pietre da sgranare,
in un qualunque mattino caldo
d’anniversario.

La Grande Storia (con la iniziale minuscola) è qualcosa che è andato nel dimenticatoio, che è caduta in disuso assieme alle retorizzazioni della poesia della Grande Storia, anch’esse finite fuori corso, tutte intere con i loro bagagli sinfonici. Anche la tematizzazione di queste composizioni rivela quel qualcosa di effabile, di intimo e, insieme, di accessorio, con cui Marzia Spinelli ama costruire i suoi «pezzi». Si percepisce che c’è come un fondale che è franato dietro queste poesie, il fondale che un tempo aveva nome di «passato», «tradizione», «retorizzazione» etc.  I frasari di cui è ricca questa poesia sono pezzi realmente tolti di mezzo dal mezzo, non è più un mezzo parlare, il «balbutire» montaliano, è un parlare piano, intimo, prosaico che l’io lirico rivolge alla memoria.
 È una poesia gentile che adombra il piccolo mondo antico dell’io e delle sue formalità.
Come scrive Adorno: «Dietro la demolizione pseudodemocratica delle formalità, della cortesia vecchio stile e della conversazione ormai inutile e sospetta? non del tutto a torto? di non essere che pettegolezzo, dietro l'apparente chiarezza e trasparenza dei rapporti umani, che non tollera più nulla di indefinito, si annuncia la pura brutalità. La parola diretta, che senza dilungarsi, senza esitare, senza riflessione, ti dice in faccia come stanno le cose, ha già la forma e il tono del comando che, sotto il fascismo, i muti trasmettono ai muti. La semplicità e oggettività dei rapporti, che elimina ogni orpello ideologico tra gli uomini, è già diventata un'ideologia in funzione della prassi di trattare gli uomini come cose.»*
* (Theodor W. Adorno - Minima Moralia / Meditazioni della vita offesa - Einaudi, 1994.)