“Le gemme” vuole essere una collezione di quaderni di poesia dedicata a poeti contemporanei opportunamente selezionati, con il proposito di rappresentare una summa della loro poetica. L’intenzione è quella, infatti, di raccogliere le gemme di ogni autore per sintetizzarne il discorso poetico e, al tempo stesso, per facilitarne la diffusione attraverso un formato semplice ma elegante e di immediato impatto visivo.Nella convinzione che non è certo la quantità a determinare la qualità, Progetto Cultura ed io, abbiamo ritenuto qualificante dare vita a questa nuova iniziativa editoriale nella prospettiva di testimoniare momenti di elevata ispirazione poetica, tali da potersi legittimamente inserire nel panorama letterario contemporaneo per la loro unicità e significatività, sia dal punto di vista contenutistico che stilistico.“Le gemme”, pertanto, non vuole essere soltanto una collana di poesia, ma una teca luminosa dove i poeti possono mettere in evidenza i loro tesori.



martedì 20 giugno 2017

Istantanee di Valentina Ferranti - Gemma n.12


Ed. Progetto Cultura
Le gemme - Collezione di quaderni di poesia n.12
aprile 2014
ISBN 978-88-6092-622-7

Introduzione di Cinzia Marulli 

Istantanee è la raccolta vincitrice del premio Le gemme.
Quale ne è il motivo? cosa ha portato una giuria seria, prestigiosa, severa a scegliere tra oltre cento opere di valore proprio quella presentata da un’autrice sconosciuta? Come mai la voce poetica di Valentina Ferranti ha conquistato il podio?
Certo non ci sono formule matematiche che determinino il valore di una poesia, soprattutto oggi che non abbiamo neanche la metrica come parametro di valutazione e, per quanto si aneli all’obiettività, il parere di un giurato è sempre un parere personale come mi ha sempre ripetuto Maria Luisa Spaziani nei pomeriggi di letture. Però, è anche vero, che la lunga abitudine alla lettura poetica, gli anni di studio, la sensibilità, portano il lettore a captare subito il valore di un testo. E’ come una formula alchemica. O forse è la forza della parola. Quella giusta.
Ecco, credo che questi fattori siano stati determinanti nella scelta, perché le poesie della Ferranti tagliano il pensiero. La parola diventa talmente asciutta da superare la sintesi, eppure rimane evocativa,  e significante.
Non a caso il titolo “Istantanee” si inserisce perfettamente a simbolo del senso stesso della raccolta: la parola diviene come uno scatto fotografico che cattura la vita e il suo movimento. Basta una parola, come fosse una pennellata di Monet, a catturare il reale e il sogno: “lontana la città si trasforma di sera viola.” (dalla poesia Dicembreviola).
Quello che colpisce nella Ferranti è proprio la capacità di scolpire la lingua, di plasmarla, di trasformarla, creando regole nuove, neologismi, espressioni inconsuete eppure chiarissime, nitide, come un’immagine in primo piano: “Si espande/con un respiro/la città illuminata a fiammelle elettriche,/apre la bocca/impastata di gas,/sugo rappreso, canditi./Roma,/accesa,/si mette su un fianco infastidita./
Si tratta di un linguaggio di innovazione, che parte dal contemporaneo per aprirsi al futuro.
Con il suo inchiostro la poetessa ci penetra, affrontando tematiche varie dove emerge il senso della vita quotidiana trasposto però in una dimensione altra. La vita si trasforma in uno spettacolo, il lettore si trova oltre di essa a guardare ciò che accade, o meglio a “sentire” quello che la poetessa ci mette in evidenza.  Anche la punteggiatura diventa un mezzo di creazione, serve a interrompere il suono, ma anche il pensiero, a separare la parola che deve rimanere da sola per acquistare la sua potenza.
E’ tutta da scoprire la poesia della Ferranti. E’ una poesia che speriamo di leggere ancora in futuro, in nuove forme, in nuovi testi.  E’ la speranza che una voce così significativa prosegua il suo cammino e con questa piccola Gemma desideriamo dimostrarle, la casa editrice ed io,  il nostro concreto apprezzamento.






mercoledì 17 luglio 2013

Luigi Celi su Nelle tue stanze di Marzia Spinelli

Nelle tue stanze di Marzia Spinelli è una coinvolgente plaquette che si sviluppa sulla rivisitazione poetica-
memoriale del rapporto madre-figlia, dopo la scomparsa della madre Lina.
Faccio subito riferimento alla forma del testo. La integrazione tra narratività e lirismo senza acuti e stridori, è la caratteristica più evidente della raccolta. Il verso è libero. Stilisticamente a versi brevi si alternano versi lunghi, a volte tanto lunghi da riportarsi negli accapo, endecasillabi e sottostrutture degli stessi sono ora in evidenza ora nascosti nel verso lungo. L’aggettivazione è appropriata e misurata, non si rinuncia alla punteggiatura che aiuta nella lettura ad alta voce, non si indulge in bellurie.
La raccolta è prefata dal poeta Alberto Toni, che paragonandola a  Fare e disfare - primo libro di Marzia, del 2009 - nota con acribia “l’assedio di un unico ricordo”. In versi vivi e pungenti, Marzia riaccarezza gli affetti e rivisita i tempi e i luoghi del lungo rapporto madre-figlia … “Là nella stanza vuota/cerco l’arcobaleno della casa/prediletta”. Così prende abbrivio questo diario in versi.
Dopo la tempesta del lutto c’è l’arcobaleno, nel sereno l’interiorizzazione dell’amore e del dolore si dà in rivisitazione dei ricordi a rebours! Se si sperimentano certi effetti distruttivi del tempo, lo si esorcizza consentendo all’infanzia di riemergere: “mi nascondo al Tempo/ nella traccia dell’infanzia/mi rintraccia la memoria”.
Notiamo che la poetessa non insegue i ricordi, ma è “rintracciata” da essi, come non manca di sottolineare anche Alberto Toni.
I versi iniziali sono da discesa agli inferi, in essi c’è tutto il motivo del libro … versi precipitao liquidi, perché c’è bisogno di lavare, cancellare i rimorsi e il dolore. La notte porta voci fluviali e la poesia che si fa notturna è un traghettamento del sé nel fiume dell’oblio:
“Notte, eri voce del Metauro/ a traversare la pietra rifatta/ a cancellare d’ogni paese la pena”.
La poesia della Spinelli ha consonanze caproniane, si pensi a  Il seme del piangere, dedicato alla madre del poeta, Anna Picchi, ma ritrovo analogie anche con i versi de Gli anni tedeschi: “Quali lacrime calde nelle stanze?/ Sui pavimenti di pietra una piaga/ solenne è la memoria”.
Interessanti, del libro della Spinelli, le citazioni in esergo. Gli eserghi hanno un’importante ricaduta sulla poesia e ne configurano il doppio registro poetico e metapoetico. La citazione più vicina, forse, allo spirito di questa raccolta, è nei versi di P. P. Pasolini alla madre: “Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore/ ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore”. Ci sono in esergo anche gli splendidi versi di Shakespeare: “Tu sei di tua madre lo specchio,/ ed ella in te rivive”.
L’identificazione madre-figlia, quasi al culmine di questo processo di riappropriazione fagico-simbolica del corpo scomparso, nel suo volto riflesso, è il tema della XXII poesia; essa viene in luce quando Marzia si chiede: “è il volto mio o il tuo?”; ma ci sarebbe da obiettare col Borges di una poesia del 1971: “Lo specchio non replica nessuno/ quando la casa è deserta”.
Nella bellissima poesia  Negozio di pietre (n° IX) la reiterazione del “come te” sovrappone due rapporti parentali, il proprio e quello tra un’altra madre e un’altra figlia “che fuma e vende quarzi”; in una continua inversione di ruoli, quasi cinematografica, ora è quella figlia a essere come la madre della poetessa, ora è quell’altra madre a somigliare alla madre di chi scrive. La figlia padrona, “dice buon giorno come te”, “dice grazie come te”, “ha i capelli come i tuoi”.
Il paese e la valle furono, per Marzia, sempre una trincea, e in ogni altro luogo ci fu sempre uno specchio in cui cercare i luoghi e il volto della madre per riconoscersi, filo d’Arianna per salvarsi nel labirinto.
Questa silloge è un memoriale. Quando si istituisce un memoriale, anche poetico, si compie un’operazione liturgica, se è vero che i memoriali sono evocatori del mistero. La casa, la stanza della madre, gli oggetti divengono sacri. Reliquie gli oggetti concreti, come quelli dei ricordi: spighe, ciliegie, rami secchi d’ulivo. L’amore è rivisitato nei dettagli con timore e tremore, sono sacre anche le briciole dei pasti che venivano buttate via, come le carte, i nastri a nodo stretto che bisognava tagliare; metafora questa, pure, della necessità del distacco affettivo.
L’elaborazione del lutto – “clone di vita su oggetti” - si dà perciò in oscillazione di canto tra le Furie e le Eumenidi, con riferimento personalistico alla mitopoiesi della tragedia. L’amore fonda e dà sapore alla vita; esso come il cibo si condivide, si spezza come pane eucaristico. È “una fatica storica l’amore”, se “si sbriciola” ci si prepara “per un altro pasto”. Ora, nella casa degli affetti rimangono “il parquet divelto” , “le foglie rosse della tua stanza”, la stanza di Lina è come se fosse l’unica.
Ipotizzerei una qualche somiglianza - proprio per il continuo rimando agli oggetti, alla “poesia delle cose” – tra i versi della Spinelli e quelli del Gozzano de La signorina Felicita o de L’amica di nonna Speranza; anche in Gozzano ci sono una casa, stanze, un giardino e i ricordi che scendono in “un cuore amico”. Ritrovo, forse nella poesia di Marzia, un po’ del Gozzano dei versi - “Silenzio! Fuga dalle stanze morte!/ Odore d’ombra! Odore di passato!/ Odore d’abbandono desolato!” –, le stesse atmosfere dolci e luttuose, sebbene ci sia più dolore e meno disincanto nella Spinelli, per la prossimità e concretezza del lutto. Il richiamo al “correlativo oggettivo”, oltre che al grande Eliot, fatte le debite differenze, potrebbe connettere questa poesia alla linea lombarda; per quanto i lombardi mostrino a mio avviso una costante minimalista, nel tendere ad una oggettività che mira in molti casi ad espungere la soggettività. Marzia cerca nelle cose, per converso, le esperienze condivise, attiva il transfert quando lavora di scavo nella ricerca delle motivazioni dei sentimenti d’amore pace conflitto. Ogni tipo di amore, anche quello genitore-figlio, si nutre di conflitti, che a volte feriscono, a volte uccidono la relazione e perfino l’oggetto d’amore. Il richiamo ai complessi di Edipo o di Elettra, alle nascoste pulsioni sado-maso, cannibaliche o aggressive, ci riportano inoltre agli studi della relazione del bimbo con il seno materno, condotti da Melanie Klein, che stanno alla base delle dinamiche comportamentali anche degli adulti.
Nel testo della Spinelli c’è indugio nel sottoporre gli oggetti a singolare nominazione:
con essi, attraverso di essi, in gioco ambivalente di nascondimento e svelamento dello spirito della madre come dall’Ade; ombra che pare Euridice in lotta profonda contro l’oblio e Thanatos.
Il sogno ha un ruolo significativo e dirompente, nella vita, come nell’arte. Nel componimento XVII Marzia sogna la madre, la vede, cerca di abbracciarla come Enea il padre Anchise agli inferi … il fantasma è inafferrabile. Cogliamo in questa poesia, quindi, influssi orfici della letteratura antica.
La morte dei genitori ci fa morire con loro, ma anche ci risveglia, ci fa rinascere con un formicolio agli arti addormentati. La poetessa in “un’assenza di attrazione” per quell’ombra, in movimento compensativo rispetto all’abbraccio andato a vuoto, si dichiara e dichiara come con un lapsus: “Dovrei essere anche senza di te”.
Il tema dell’identità, dell’unità e della dualità a partire della nascita, che si prolunga psichicamente in età matura attraverso il distacco, il tema dell’autonomia della persona, del suo sviluppo, dunque, è quello del suo stesso prodursi in emersione, come dal nulla. L’identità non è mai compiuta.
Nella spirale dei ricordi condivisi, oltre la morte, la poesia entra in scena sempre da un retroscena, dietro cui poi si nasconde, un rimosso da far riaffiorare, qualcos’altro da obliterare, perciò le immagini sono come coperte da nebbia; avviene così anche nell’Odissea o nell’Eneide quando le ombre dell’Ade appaiono velate agli eroi visitatori. L’io è in quella nebbia, che è propria di un rimembrare disturbato e sofferto. Occorre lottare contro fantasmi interiori, sensi di colpa, rimozioni, per cui il ricordo si frange come si frange il cuore, si sposta stordito e ondivago su luoghi e su oggetti residuali, tra sincroniche esperienze del passato e del presente “chiuse come urna”.
Nel testo XIX, le colpe, il senso di colpa, “diventano preghiere” … chi altro può salvarci, se non un Dio, dal peccato originale, dalle colpe parentali?
Nella poesia XX, anche il secolo in cui si è vissuti con la madre, il Novecento, è curvo e orfano. Anch’esso si ripercorre mnesicamente e ci nutre di Storia  “nel guscio (…) dei ricordi”. Sembra esserci qui un cenno di poesia civile, un tentativo simbiotico d’introdurre una chiave ermeneutica per intendere il peso luttuoso della Storia, la possibilità di penetrare il senso comune di eventi personali e trans-personali: “la guerra, il matrimonio, la mia nascita/ il diario comune di ragazza”.
Il Tempo, spesso evocato come convitato di pietra, a volte in lettere maiuscole, con e come nella poesia di Borges in esergo - è associato al “sospetto” per la sua natura di “enigma”.
Scrive Marzia: “Ascolto la voce del Tempo/ in questo tempo informe” (XXII)
“Nel tempo che dormiamo c’è un arresto … della morte” (XIX).
Il motivo del tempo nutre di riflessività questo libro, che è ben più di un’elaborazione poetica del privato. La maiuscola, con cui “Tempo” è spesso scritto, ne indica una significazione sacrale; la sua marmorea incombenza, come l’Ananke del tragico greco, ne fa, come già presso i greci, una divinità che non può essere placata con sacrifici; esso è ciò a cui non ci si sottrae.
Al tempo come alla Necessità, ad Ananke (al Fato) sottostanno uomini e dei.Nella poesia XIV la poetessa dichiara:
“Ora so che è semina il Tempo/ porta tutto a vendemmia, anche le stelle”.
Come nell’Ungaretti del  Sentimento del tempo, al di là dell’inarrestabile “divenire” eracliteo o di ogni “impermanenza” induista-buddhista, conta il fermo legame con il passato, in particolare quello che faceva del poeta un “uomo di pena”.
La pena, anche nella poesia della Spinelli, è sentimento del tempo.
Adorno notava in  Minima Moralia che “L’elemento storico, nelle cose, non è che ‘espressione della sofferenza passata’”.
Nell’ultima poesia, scopriamo che anche la Primavera non cela “il dolore”, non distoglie i tarli, né  il “gelo del Tempo,/ quel battito fantasma/ che non si commuove” che “non s’accorge mai della ruggine”; essa, la ruggine – scrive Marzia –  non si stacca “dal suo ego/ ciclotimico, dalla sua durata …/ Quanto  alla nostra/ il Tempo ci passa sopra/ forse neppure la registra”.
Nondimeno, aggiunge Marzia, “una scaglia di stupore” confonde il Tempo”… “chiede chi siamo”.  

Roma 21-12-2012

Rivisto il 02-07-2013

martedì 9 luglio 2013

La poesia, la precarietà e il riscatto di Nicola Bultrini: nota di lettura di Et allons di Alberto Toni

 Pubblicato su Il Tempo del 16 giugno 2013
La nuova raccolta di versi di Alberto Toni, «Et allons» (Edizioni Progetto Cultura), prende spunto e titolo da un verso della «Saison en enfer» di Rimbaud, per percorrere una sua propria stagione in cui la parola scritta si fa strumento di indagine. «Linea / sarà, non di guida, ma almeno di forza», il senso dell'esperienza, per tentativi, del conoscere. La perentorietà del dettato suscita quindi domande sfidando l'inquietudine delle risposte, per «sfrondare, spargere un nodo, una richiesta». È una poesia pervasa dal senso della precarietà, immaginando un riscatto possibile solo nel reale. Ma «la spinta contro / il vuoto è sostenuta dalle infinite preghiere / di una rinascita così a lungo attesa», in cui si fa strada l'idea di una nuova partenza (centrale nella poetica di Toni) nel confronto con l'aspra contraddittorietà della vita. Ma è «lieta la vita, / non confusa nel programma dei massimi / sistemi».
Perciò nella solitudine anche dell'anima prostrata, il poeta sa che l'unica scelta possibile e meritevole è una strada di verità.

mercoledì 26 giugno 2013

Paolo Carlucci su Il secondo dono di Sabino Caronia

Le ninfe son partite e solo resta/ il rimpianto del passo che innamora. Dura nel vetro degli occhi il vento dei ricordi. E’ questa la cifra di Sabino Caronia, critico e scrittore, che, in una sorta di voce dovuta a madama Nostalgia, dispiega le sue ragioni d’amore. Lo dimostrano alcuni dei suoi versi più ispirati, raccolti ne Il secondo dono, uscito recentemente per i tipi di Edizioni Progetto Cultura, nella collana poetica le gemme, curata da Cinzia Marulli. Caronia pare recuperare, attraverso  una raffinata memoria poetica che spazia da Pascoli a Cardarelli, a  suggestioni lorchiane, ismi lirici di autentica ricerca melica, che possono suonare nell’ipetrofia visiva di certi azzardi sinestetici,  forse come un cosciente ... sperimentalismo di uno stupore, risolto sovente come rondismo dell’anima. Scintille di vita, egli le  affida alla forza dell’immagine, al desiderio infinito di ridonare poeticamente i colori del cuore. In modo antico stella, nel sonetto d’esordio, l’evocazione di un’infanzia mitica. Ritornare  da te  fanciullo eterno/ che siedi  sopra il monte a Terracina./ e come Orfeo, disceso nell’inferno/ rinascere in un’ansia di mattina. La natura si fa specchio di un orizzonte del vissuto, liricamente restituito. Se il tuo stupendo  volto adolescente/ in questo  specchio magico è riflesso/ anche vive nell’anima dolente / racchiuso nel profondo  di me stesso.  Un procedere siffatto può talora cadere nella retorica del facile sentimentale, abusato miele che genera fiele poetico, ma il nostro, in larga misura, evita l’agguato, cercando nel valore umano l’incompiutezza, il vago immaginare di una nebbia di risa; nella terra desolata l’odore dell’amore è vero nel suo essere Passaggio in ombraNon avere  paura / di lasciarci  nel buio, / il tuo cuore è una fiamma/ che la morte non spegne. Ginestra di notte la passione. Il mio amore è una luce/ che la notte non spegne.     

Chiara Mutti su Il secondo dono di Sabino Caronia

In Giove Anxur, quel miracolo di marmo e tempo, esposto alla luce calda del sole che si arrossa al tramonto e che sembra ancora dominare Terracina dalla cima del monte, riflesso nell’infinita azzurrità del mare, in cui io stessa, in una bellissima gita di qualche anno fa, ho annusato il respiro degli dei, ho trovato quell’ininterrotta linea spirituale che ci unisce…quello specchio magico riflesso nell’anima dolente, quel richiamo all’acqua materna, potenza generatrice. Il libro di Sabino Caronia si apre e mi si apre così.
Ma è ad un altro tipo di fede a cui, a mio modesto parere, “Il secondo dono” è in sommo grado ispirato: l’amore. Inteso nella sua accezione più profonda.
Perché l’amore di Sabino è una fede, non nel senso comunemente inteso di spiritualità, ma in quello suo proprio di fiducia; nell’altro, nella vita dell’altro in quanto dono, costruzione del se attraverso l’altro.
Nulla nella nostra piccola esistenza è destinato a rimanere, eppure nulla si perde…
Lanterna nella notte, resta un pienissimo soleluce di luce vera – resta il vivissimo fuoco di verdi occhi chiari. Ecco l’amore è luce, è un verde di prati smeraldo/ dentro una pioggia d’oro.
La luce di questo “caldo gentile” si riaccende in immagini, in istanti di vita rubati all’oblio dal ricordo ed anche, o forse maggiormente, lì dove il paesaggio si vena di malinconia o di rimpianto, lì dove il paradiso dell’amore è un morto paradiso, l’amore non viene mai rinnegato – non sperare che possa/ mai morire il mio amore/ Il mio amore è una luce/ che la notte non spegne – L’amore di Sabino non pretende, non chiedo…che una stanza per me dentro al tuo cuore.
In questa richiesta muta che urla, verso cui si protende e da cui fugge allo stesso tempo – e tengo chiusa la porta di casa/ di fronte all’invadenza delle stelle – Sabino sancisce la propria appartenenza alla vita, alla fragilità dell’essere umano. Questa vita che corre e che, come saggiamente ci ricorda nella bellissima strofa posta a incipit dell’intera raccolta, dura il tempo di una sigaretta, ecco lì riconosco l’essenza, il valore di quel “qualcosa di più” che esula da altre vane speranze. Trovo il più intimo, il conclusivo messaggio della poesia di Sabino.
E così me ne vado
in giro per le strade
sotto più chiare stelle,
dentro il buio più nero,
ubriaco di sogni,
di speranze e di cielo.


                                                                                                                         Chiara Mutti